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Un segno che punta al Regno

Assonnata fra uno scalo e un altro nelle prime ore del mattino nell’aeroporto di Johannesburg ho visto riportata su un cartellone una frase attribuita a Gandhi: «Siate voi stessi quel cambiamento che desiderate vedere nel mondo». Una successiva ricerca su Internet ha smentito o almeno messo in dubbio la paternità gandhiana della frase. Che Gandhi abbia pronunciato oppure no quella frase è vero che, se da una parte concetti anche molto sofisticati possono restare scolpiti in frasi lapidarie, quando il pensiero diventa slogan c’è sempre il pericolo di tradirne il senso profondo. E la strategia gandhiana non può essere ridotta a una trasformazione solo personale che non diventi prassi collettiva e quindi azione politica. Comunque quella mattina quella frase mi aveva colpita e oggi che il mio quarto viaggio in Zimbabwe è ormai alle spalle già da qualche giorno mi frulla ancora nella testa. Quello che mosse l’Unione battista d’Italia (Ucebi) dieci anni fa a mettere in campo un’iniziativa di partenariato con una convenzione battista sorella in uno dei paesi più deprivati e politicamente isolati del mondo fu l’adesione alla Campagna di Michea per promuovere gli «Obiettivi del Millennio» (Mdg) nella lotta contro la povertà globale. Si disse allora che bisognava cercare di dare volti e nomi ai numeri, i numeri delle morti per fame, i numeri delle vittime della pandemia dell’Aids, i numeri delle donne in pericolo di vita per parto, i numeri della mancata scolarizzazione dei bambini. Solo le storie di persone in carne ed ossa avrebbero potuto avvicinarci al punto di trovare la nostra sorella, il nostro fratello, i nostri figli e nipoti, il nostro prossimo nascosto nelle lunghe e dettagliate statistiche delle diseguaglianze planetarie. 
«Siate voi stessi quel cambiamento che desiderate vedere nel mondo». Questa frase mi ha parlato oggi forse perché essa si presta a diventare un’altra chiave per capire quello che stiamo facendo in Zimbabwe. Senza trionfalismi, con l’unico desiderio di lavorare insieme agli zimbabwani per aprire spiragli di speranza da condividere. Son passati 10 anni dalla nostra prima visita. Da poco la pubblicazione dell’ultima relazione sugli Obiettivi del Millennio da parte delle Nazioni Unite e del Gruppo di esperti delle diverse agenzie internazionali incaricati di esaminare gli indicatori Mdg*. La lunga relazione Onu riporta i progressi fatti e in parte anche i fallimenti e gli obiettivi mancati. Un interessantissimo documento da leggere con attenzione, per molti versi illuminante.  Per quanto ci riguarda questi 10 anni ci hanno visto entrare in contatto, anche drammatico, con situazioni che conoscevamo soltanto per averne letto sui giornali in scarni trafiletti. Abbiamo avuto contatti intensi e ravvicinati con una popolazione affetta dall’Aids per il 25% (oggi la percentuale ancora altissima è però scesa intorno al 17%) e abbiamo visto nei primi anni come questa pandemia era vissuta più come una maledizione che come una malattia curabile. Abbiamo capito cosa può voler dire vivere con meno di un dollaro e 25 centesimi al giorno e in Zimbabwe abbiamo visto tanti bambini che non potevano (e alcuni non possono ancora) permettersi un paio di scarpe. Abbiamo visto sbriciolarsi la moneta locale per un’inflazione senza controllo, abbiamo visto fallire banche e polverizzarsi fondi pensioni. Ma abbiamo anche visto un popolo affamato e in ginocchio che riusciva con fierezza a rimettersi in piedi e superare la carestia più grave della sua storia (anni 2007-2009), uomini e donne che, anche e soprattutto attraverso la solidarietà internazionale di organizzazioni non governative grandi ma anche piccole e piccolissime (come la nostra), hanno imparato a convivere con l’Aids, a prevenirne il contagio, a curarsi con regolarità senza quasi più alcuna indotta vergogna o senso di colpa.
Abbiamo visto ambulatori rurali e infermiere seguire corsi di specializzazione per acquisire la necessaria professionalità per l’assistenza alle puerpere, contribuendo così a ridurre le percentuali di mortalità delle donne per parto. Abbiamo visto cambiare il nostro ospedale Sanyati, quello dove tutto per noi è incominciato in una fase drammatica quando non c’erano farmaci sugli scaffali, le strutture erano quasi in abbandono e il personale lavorava gratis. Oggi ogni letto ha la sua zanzariera, i letti hanno materassi e lenzuola, ci sono ben due incubatrici, la sala parto è completamente ristrutturata e i pannelli solari assicurano l’illuminazione delle sale dove avvengono interventi di urgenza e parti anche durante i quotidiani notturni blackout elettrici. E più di tutto oggi l’ospedale ha tre medici zimbabwani dopo lunghi anni in cui l’unico medico era un dottore americano missionario che eroicamente, spesso da solo, portava avanti l’ospedale fungendo da medico chirurgo e direttore sanitario.
Molti di questi progressi nel nostro e negli altri ospedali sono stati possibili per l’intervento di Organizzazioni non governative o intergovernative. I farmaci antiretrovirali, antimalarici e anti Tbc sono disponibili e gratuiti per tutti e distribuiti anche in località remote. Le carenze sono ancora immense, ma comunque qualcosa è cambiato e anche noi, con il contributo di tanti dentro e fuori dalla nostre piccole chiese, e negli ultimi anni particolarmente attraverso i contributi 8×1000 della Chiesa valdese, abbiamo reso funzionale un presidio sanitario tanto prezioso per migliaia di persone. Stessa cosa per i sei ambulatori rurali dislocati in luoghi di difficile accesso (le strade secondarie non sono state migliorate in questi dieci anni). Essi hanno potuto resistere in tempi difficilissimi anche per il nostro sostegno, oltre che per la grande professionalità e abnegazione del personale infermieristico e ausiliario.
Negli anni è anche nato un progetto di adozioni a distanza di bambini e bambine orfani, autogestito in casa Ucebi. Messo in piedi con lavoro volontario per poche decine di bambini e bambine nel 2007, esso si è man mano sviluppato, ha affinato le procedure di distribuzione di aiuti e di rendicontazione, ha migliorato il processo di aggiornamento delle notizie ai sostenitori italiani, e nel tempo ha reso accessibile per centinaia di bambini e ragazze la scuola primaria e secondaria. Alcuni di questi ragazzi e ragazze sono riusciti addirittura ad avere accesso all’Università, avendo conseguito profitti molto alti. La nostra poca esperienza nel campo ha significato negli anni molta pazienza da parte dei «genitori adottivi» qui in Italia, i quali non tutti e non sempre ricevevano notizie e foto aggiornate dei loro bambini/e. Tuttavia nei giorni scorsi in Zimbabwe abbiamo incontrato una settantina di questi bambini e ragazze/i (su un totale oggi di 308) e abbiamo visto come una cifra mensile molto modesta (20 euro al mese) possa catalizzare le forze della speranza nei bambini stessi, nei loro tutor, nei pastori delle loro chiese pur restando questo contributo ben al di sotto della soglia della povertà.
Abbiamo anche costruito qualche pozzo artesiano che ancora oggi fornisce acqua potabile a tante persone che altrimenti sarebbero ancora a rischio contagio di malattie infettive; ed è oggi ad uno stadio avanzato il Progetto Tabitha, la costruzione in un’area protetta di Harare di una sartoria dove speriamo che presto vedove senza sbocchi possano trovare lavoro e riscatto. La struttura è quasi pronta ma ha ancora bisogno di soffitto, intonaco esterno, grondaie e pavimentazione adeguata.
No, la frase gandhiana che accompagna la mia riflessione di questi giorni non significa che le scelte individuali o di gruppo possano da sole cambiare le strutture di ingiustizia di questo mondo. Però non è vero neanche l’opposto, che cioè il mondo possa cambiare senza un cambiamento profondo anche delle nostre scelte personali. Né possiamo pensare di aspettare il cambiamento degli altri per provare a cambiare qualcosa del nostro stile di vita. 
Tutti e quattro gli evangelisti hanno riportato il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Giovanni lo ha chiamato segno. Segno è ciò che punta ad una realtà invisibile ma vera. Sfamare tanta gente quel giorno fu un segno che rimandava alla realtà del Regno della piena comunione e della piena sazietà di masse di diseredati. Il segno punta al Regno. Leggo così quella frase gandhiana, per questo penso che abbia ancora molto senso quello che cerchiamo di fare in Zimbabwe o nelle nostre periferie, o nei nostri porti quando accogliamo e non respingiamo persone bisognose di protezione, o nelle nostre case quando apriamo le porte a qualcuno e lo/la invitiamo a cena con noi.
Foto: Due piccoli pazienti dell’ospedale battista di Sanyati