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Le minoranze religiose in Cina tra repressione e sviluppo

Alcune minoranze etniche e religiose in Cina hanno maggiori difficoltà ad ottenere un passaporto: i tibetani o gli uiguri, per esempio, vivono rallentamenti o impedimenti nella burocrazia soltanto per viaggi di studio, lavoro o di pellegrinaggio religioso. Un sistema “a doppio binario” che è stato definito lesivo dei diritti umani e della libertà religiosa da parte dell’osservatorio Human Rights Watch. «Chi appartiene alla minoranza tibetana può passare in dieci uffici diversi per ottenere il passaporto – dice Gabriele Battaglia, giornalista dell’agenzia China Files – e attendere diversi mesi. Problema che non ha, per esempio, l’etnia Han che in Cina è maggioritaria».

Cosa ha pensato di questa notizia?

«Non mi ha sorpreso minimamente, perché da tempo conosco storie di persone che vivono sulla loro pelle questa situazione. In particolare Uiguri dello Xinjiang che vivono questa difficoltà ad avere i passaporti, che non finisce quando l’hanno ottenuto: quando tornano in Xinjiang, in base a una normativa locale, devono restituire il proprio documento che rimane alle autorità, che lo esaminano e lo controllano e in caso glielo restituiscono. Conosco diversi Uiguri che stanno all’estero, per studio o per lavoro, così come in altre parti della Cina, che non tornano più in Xinjiang, altrimenti devono restituire il passaporto senza sapere se e quando potranno rivederlo»

Perché questa insistenza?

«Quello che sta succedendo in Xinjiang si inserisce in un’operazione ipersicuritaria che è stata messa in piedi da poco più di un anno, dopo le stragi di Kunming e Urumqui del 2014 che le autorità cinesi hanno sempre ascritto al separatismo uiguro musulmano, come fosse una jihad condita con nazionalismo etnico che entra in Cina. Il discorso è lungo: da un lato le autorità cercano di favorire gli Uiguri che si comportano bene, dall’altra parte acuiscono la repressione. La questione dei passaporti è fondamentale anche perché il governo cinese sostiene che circa 300 uiguri abbiano raggiunto l’Isis in medio Oriente. Altre fonti internazionali lo confermano, ma senza la certezza sul numero».

Perlando di minoranze in Cina dobbiamo sempre parlare di repressione?

«Non solo. Nello Xinjiang, dall’avvento di Xi Jinping, c’è stata più repressione, è vero, ma d’altra parte c’è il tentativo di compiere la politica delle tre J: jiaowang, jiaoliu, jiaorong, ovvero contatti, scambio, mescolanza: mentre prima c’era una politica molto forte di segregazione razziale, adesso si cerca di mescolare la popolazione, ma attraverso valori standardizzati che sono ovviamente i desiderata del potere cinese. Da qui nascono i conflitti, anche se l’intento sarebbe un altro. Questo si avverte sul campo, così come il razzismo di molti Han, gruppo maggioritario in Cina: arrivano come colonialisti che impongono la loro volontà. A questo si unisce comunque una repressione sempre più acuta. Gli uiguri, che sono musulmani, possono andare in pellegrinaggio alla Mecca, ma in viaggi organizzati, in numero limitato, e così via: finché c’è questo fiato sul collo è difficile che la tensione si stemperi».

Anche i cristiani hanno avuto dei problemi, ricordiamo la rimozione delle croci dagli edifici di culto o l’abbattimento di parte delle chiese.

«Era una campagna che non è chiaro se sia ancora in corso o no, ed è avvenuta nello Zhejiang dove c’è una maggiore presenza cristiana. Da un po’ di anni il partito comunista cinese ha strizzato l’occhio al cristianesimo, soprattutto quello protestante, in quanto strumento per andare a colmare il vuoto nella morale che si è creato con la fine del periodo Maoista e l’avvento del turbocapitalismo degli ultimi trent’anni. Come se l’etica protestante potesse dare un po’ di moralità ai nuovi ricchi. Ma l’eccessivo allargarsi di questi gruppi religiosi, la difficoltà a controllarli e il penetrare della religiosità all’interno del partito stesso hanno indotto a questo tipo di campagne, che hanno preso a pretesto l’abusivismo edilizio e hanno iniziato a colpire le chiese».

Quindi i motivi per cui le autorità cinesi agiscono in questo modo sono esclusivamente politici?

«Assolutamente sì. La Cina non predilige una religione piuttosto che un’altra: fin dai tempi di Gengis Kan tutte le religioni sono tollerate e messe sullo stesso piano a livello di principio. Il punto è sempre che il potere politico invece è uno solo, che decide cosa è consentito e cosa no anche in materia spirituale, da qui il grande conflitto con la chiesa cattolica. Non possono esistere associazioni, nemmeno religiose, che si sottraggano al controllo della supervisione dello Stato: questa è un’idea radicata che non ha solo a che fare con la Cina socialista degli ultimi 70 anni, ma viene da lontano, da un’idea imperiale del paese».

Però le minoranze musulmane sembrano maggiormente represse.

«Direi di sì, almeno dai fatti di cronaca più recenti. C’è da dire che è anche la minoranza più bellicosa e che per questo gode di attenzioni particolari da parte del potere cinese. Tutti gli esperti con cui parlo dello Xinjiang sono piuttosto pessimisti perché c’è un acuirsi delle posizioni e chi ne va di mezzo sono gli uiguri stessi: il separatismo infatti non è un’opzione sul tavolo. Quella zona diventerà un trampolino di lancio della Cina per il nuovo grande progetto della via della seta, e quindi una zona chiave della quale non si vorrà perdere il controllo. L’intenzione del governo è anche dare sviluppo economico a quella zona, come è abitudine della Cina, cosa che risolverebbe i problemi, almeno secondo il partito. Il problema è che uccide la biodiversità umana e culturale dei luoghi: è un po’ il modello della globalizzazione in stile cinese».

Foto: “Old urumqi sta.,urumqi-city,Xinjiang,china” by katorisi – Own work. Licensed under CC BY-SA 3.0 via Wikimedia Commons.