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Emma Bonino: «Stop ai campi rom»

Stop ai campi rom: l’idea è quella di riuscire a garantire alle popolazioni romanì, famiglie rom e sinti, l’accesso a percorsi di inclusione abitativa e sociale. E’ pronta la delibera che toccherà il comune di Roma, di iniziativa popolare, presentata in conferenza stampa il 12 giugno scorso dal consigliere comunale Riccardo Magi, presidente di Radicali Italiani, affiancato da Emma Bonino, dalla segretaria dei Radicali italiani Rita Bernardini, dal segretario romano Alessandro Capriccioli, da Giuseppe Civati, dal presidente della Commissione diritti umani del Senato Luigi Manconi e dal presidente dell’associazione 21 luglio Carlo Stasolla. Affinché la delibera possa arrivare all’Aula Giulio Cesare sono necessarie 5000 firme. Abbiamo rivolto alcune domande a Emma Bonino.

L’iniziativa che prevede la chiusura dei campi rom e l’accesso a percorsi di inclusione abitativa e sociale per la popolazione romanì è lodevole, quali sono le tappe del vostro progetto?

«Si parte dall’obiettivo della nuova strategia, che deve essere da subito chiaro e dichiarato: la conversione delle risorse pubbliche finora impiegate nella gestione dei campi in percorsi concreti e diversificati per la chiusura progressiva di questi luoghi di segregazione. Non esiste un’unica alternativa e nessuna soluzione che sia uguale per tutti è quella giusta. Ci sono invece diverse forme di housing sociale possibili, l’importante è adottare una politica dotata di diversi strumenti che guardi non all’etnia, ma alle singole persone, anche prescindendo da rappresentanze etniche elette chissà in che modo. Bisogna immaginare percorsi individuali e affrontare la questione come si affrontano nelle grandi città i problemi abitativi di baraccati e indigenti. La nostra proposta prevede una vera riforma del sistema di erogazione dei servizi nella Capitale, per porre fine a una stagione di scelte sbagliate, le cui conseguenze sono ormai sotto gli occhi di tutti».

Infatti i campi rom, come ha evidenziato anche l’indagine su “Mafia capitale”, sono un’anomalia sociale sulla quale spesso gravitano ingenti somme di denaro.

«Per oltre vent’anni, nonostante l’alternarsi di diversi schieramenti politici, è sempre stato il contribuente italiano a pagare il prezzo delle politiche fallimentari dei campi rom. A Roma, solo nel 2013, il Comune ha speso 25 milioni di euro per la gestione di campi dove vivono appena 1200 famiglie. Quando il consigliere radicale Riccardo Magi iniziò a parlarne pubblicamente, fornendo i dati ottenuti con gli accessi agli atti, fu pregato di non diffondere queste cifre. Lui invece convocò una conferenza stampa insieme all’Associazione 21 luglio. Sei mesi dopo è scoppiato lo scandalo “mafia capitale”. La verità è che la criminalità comune e politica era trasversale, ed è riuscita ad annidarsi nell’assenza di politica e obiettivi chiari».

L’indagine conoscitiva si concentrerà solo sui campi noti o intende monitorare anche accampamenti spontanei sorti in zone e aree periferiche?

«Attualmente a Roma non c’è un piano, né per i campi formali, né per quelli informali. Si mantengono e si continuano a gestire i “villaggi attrezzati” creati negli anni passati, i centri di accoglienza costosissimi e spesso terrificanti, come la Best House Rom di via Visso, nati come temporanei e poi divenuti luoghi di residenza di fatto. Al contempo, si assiste a frequenti sgomberi che, effettuati senza prevedere alcuna misura di inclusione, producono solo danni. La soluzione delle “ruspe” alimenta da anni un drammatico ‘gioco dell’oca’ di insediamenti che, di sgombero in sgombero, si spostano da un quartiere periferico all’altro. E chi propone di “mandare a casa loro” persone che in moltissimi casi sono cittadini italiani o apolidi dimostra di non conoscere il problema. Nel nostro piano prevediamo un progetto per tutti i rom presenti nei campi della Capitale. Non è una cosa che si fa dall’oggi al domani, ma si può fare davvero. Lo dimostra l’esperienza di Madrid, dove nel 2007 vivevano circa 70mila persone rom, di cui 12mila nei campi. A partire dal 2011 il Comune ha deciso di chiudere i campi e investire in educazione e formazione, diventando in pochi anni un modello in tutta Europa. Finora sono stati chiusi 110 insediamenti e 9mila persone hanno avuto accesso ad alloggi e a percorsi di integrazione».

La vostra iniziativa potrebbe estendersi a livello nazionale?

«Ci sono già esperienze positive anche in Italia. Nessuno lo dice, ma quattro cittadini di etnia rom su cinque vivono nelle case e hanno un lavoro. Approvare un piano del genere a Roma sarebbe un segnale decisivo. Lo stesso vale per l’altra delibera popolare che promuoviamo per la riforma del sistema di accoglienza e il ruolo di monitoraggio dei Comuni. Spesso si dice: “l’Europa deve fare di più”. Io credo che l’Italia debba conquistare una credibilità in sede europea, mettendosi il prima possibile in regola. Le nostre proposte vanno proprio in questa direzione e sono applicabili in tutte le altre città d’Italia».

Per far arrivare la delibera di iniziativa popolare in aula Giulio Cesare sono necessarie cinquemila firme, la raccolta è partita al Gay Pride.

«Non è facile come sembra e ad agosto Roma si svuota. Per questo voglio lanciare un appello anche a tutti i lettori: facciamo in modo che il momento di crisi che vive Roma, anche a seguito delle inchieste, diventi un’occasione per mettere a segno delle riforme concrete che segnino un “punto di non ritorno”: andate sul sito www.accogliamoci.it e date la disponibilità per la raccolta firme».

Foto: Campo Rom a Roma, di Luciano, con licenza CC BY-SA 2.0,  via Flickr