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I musulmani europei e la separazione fra memoria e storia

Fonte Voce Evangelica

Sarebbero circa 3000 gli occidentali che combattono al fianco dell’Isis. Partono per la Siria per abbracciare la fede jihadista e combattono per lo Stato islamico. Il fenomeno riguarda sia occidentali convertiti all’Islam, che anche giovani musulmani di seconda generazione: spesso questi ultimi hanno una formazione medio-alta e sono apparentemente integrati nei loro paesi. Ma che cosa spinge queste persone a cambiare la propria vita in modo così radicale? E che cosa non ha funzionato nel loro processo di integrazione nelle società occidentali? Lo chiediamo a Khaled Fouad Allam, che insegna Sociologia del mondo musulmano all’Università di Trieste.

«In relazione a queste persone che sono di origine o di culture islamiche, in realtà si pone il problema della relazione fra Islam e Occidente. Quello che voglio dire è che in realtà nel meccanismo dell’integrazione assistiamo, per chi rifiuta e trasforma in patologia questa situazione, c’è un divorzio fra memoria e storia. Cioè essere islamico significa non appartenere comunque alla dinamica di una memoria condivisa in Europa. E allora sì, uno può aver studiato, essere brillante a scuola – perché spesso sono ragazzi brillanti a livello intellettuale, con capacità di lavoro – però psicologicamente vivono in un altro mondo. E dunque, il jihadismo dà loro uno status a loro che il mondo nel quale vivono li rifiuta. E questo è un dramma, individuale ma anche collettivo oggi che ovviamente, nell’ambito dell’Islam politico, permette all’Isis di reclutare. Perché è quello il loro discorso: guardate, voi siete francesi, italiani, americani, inglesi: guardate come vi trattano, non vi accettano, venite da noi, sarete dei jihadisti».

Lei ha recentemente pubblicato con l’editrice Piemme il libro Il jihadista della porta accanto, in cui parla di terrorismo globale. A suo avviso la strategia del terrore sta riuscendo nel suo scopo? Paura e insicurezza stanno crescendo fra i cittadini delle democrazie occidentali?

«Credo di sì, mi sembra evidente. Ultimamente, quand’ero a Parigi ho sentito e ho visto quello che sta accadendo. Questo soltanto persone che appartengono a queste culture posso sentirlo: i rapporti sono molto tesi fra la popolazione francese autoctona e diciamo i francesi di origine magrebina. C’è un clima teso, di diffidenza, che rende complicato oggi la strutturazione di società comunque eterogenee e multiculturali. Poi, a livello visivo, si percepisce benissimo, cioè Parigi è pattugliata da gruppi di militari armati, otto-dieci persone che passano dal centro della città, da un quartiere all’altro, proteggono ovviamente obiettivi sensibili e questo mi ha ricordato un po’, da bambino, la Guerra d’Algeria»:

L’idea di un califfato che possa unire i musulmani nel mondo non nasce oggi, ma attraversa tutto il ‘900. Ma per quale motivo proprio oggi questa ideologia rinasce e aggrega gruppi del radicalismo islamico che erano antagonisti fra loro?

«La questione califfale assume una valenza nel ‘900 perché in realtà il passaggio da califfato a stato-nazione, per quella parte dell’Islam politico, è considerato come un abbandono di ciò che era l’identità islamica di partenza ed è considerato politicamente come l’accettazione di essere, con il passaggio allo stato-nazione, i perdenti della storia. E questo sentimento di essere gli esclusi o i perdenti della loro propria storia ha nutrito una specie di revanscismo storico-politico che poi trova la sua assunzione nella rivendicazione di un ritorno al califfato».

Veniamo agli atti terroristici degli ultimi mesi, che hanno sconvolto l’opinione pubblica europea e non solo. A suo avviso, c’è stata una reazione chiara ed autorevole da parte del mondo musulmano europeo contro questi gesti di violenza?

«E’ difficile dirlo, anche perché non c’è un’autorità sola nell’Islam e dunque tutto è totalmente frammentato. Ci sono delle voci, però anche lì a causa dei meccanismi deficitari di integrazione in realtà quelle che condividono totalmente i valori dell’Europa o dell’Occidente hanno pochissima visibilità. E se non hai molta visibilità non esisti realmente. E dunque questo pone un enorme problema. Ci vogliono dei meccanismi di integrazione molto forti, ma oggi questi al contrario sono estremamente deboli e dunque facciamo veramente molta fatica ad emergere e ci sentiamo soli».

C’è però un Islam cresciuto nella democrazia con il quale poter dialogare?

«Sì, però sono i musulmani stessi a dover ridimensionare questa visione di un Islam integralista e politico. C’è ovviamente una parte dell’Islam, che comunque è la gran maggioranza, ma che non ha voce, che pensa che i musulmani possono benissimo vivere nella democrazia. Però coniugare tutto questo è molto complicato in un mondo in cui tutto sembra diventare precario, tutto nasce e muore nello stesso momento, tutto sembra sfuggirci di fronte a delle dinamiche che sono più grandi di noi».

Per concludere, professor Allam, molti esponenti musulmani interpellati a proposito degli attentati, spesso si limitano ad affermare che “l’Islam è una religione di pace”. Mi permetto di dire che a volte questa sembra una frase fatta, che non entra nel merito della questione. Lei che cosa ne pensa?

«A me non piace quella retorica che vuole identificare l’islam con la pace… non è così. C’è bisogno che i musulmani siano veramente sinceri e che dicano che sì, ci sono degli aspetti dell’Islam che fanno sì che è data libera interpretazione a una visione molto rigida, radicale e talvolta violenta. Bisogna dire assolutamente la verità se no non possiamo progredire di fronte a delle società che comunque sono spinte e portate a comunicare fra culture, lingue, religioni diverse. Se no il risultato sarà che l’Isis potrà vincere e dominerà una parte del mondo musulmano, e questo sarebbe un bel problema per il mondo intero. Lei, vede, da noi si dice più o meno così: chi non vuol vedere l’alba non può vivere realmente la giornata».

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