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Tra il bianco e il nero c’è il verde d’Irlanda

Nelle ultime settimane abbiamo letto di quanto l’Irlanda sia avanti sui diritti. Il referendum costituzionale che ha allargato alle coppie omosessuali la facoltà di contrarre matrimonio ha sfidato, in effetti, i paesi come l’Italia, in difficoltà quando si tratta di legiferare su questi temi.

Anche chi non ha gradito il risultato del voto irlandese ha dovuto ammettere che c’è stata una svolta.

Certo, una svolta c’è stata, ma la situazione dei diritti in Irlanda è ancora drammatica, anche se tanti passi in avanti sono stati fatti da quando dal nord britannico si contrabbandavano contraccettivi quasi fossero eroina. C’è infatti un settore dei diritti su cui ci si muove molto lentamente: l’autodeterminazione del corpo di una donna in caso di aborto.

Nel 1983 ci fu un referendum che portò all’8º emendamento della Costituzione irlandese: «Lo stato riconosce il diritto alla vita del non-nato e, rispettato il pari diritto alla vita della madre, garantisce nelle sue leggi il rispetto e, per quanto possibile, la difesa di questo diritto». Il riconoscimento di questo diritto ha aperto le porte al controllo dello stato sul corpo delle donne che, chiaramente, non hanno il diritto di scegliere se — ed eventualmente come e quando — diventare madri. Anzi, in linea teorica, sarebbe dovere dello stato limitare la libertà di movimento e di azione delle donne incinte. Il diritto alla vita della madre è intoccabile, tutto il resto no, se serve a tutelare il diritto alla vita del non nato.

Qualche tentativo di mettere in pratica questa teoria c’è anche stato, con risultati a volte tragici, a volte grotteschi: dal divieto di espatriare in Gran Bretagna — misura cautelativa normale per persone incriminate — al mantenimento in vita di donne incinte in stato vegetativo fino allo sviluppo del feto sufficiente ad affrontare un cesareo, e poi prende atto della morte cerebrale. Il corpo della donna è considerato da alcuni poco più che un contenitore.

L’8º emendamento pesa come un macigno e dimostra che, almeno su questo, non dobbiamo seguire le orme irlandesi. Colpisce, però, che non ci sia una mobilitazione importante per allargare alle donne il diritto all’autodeterminazione del proprio corpo — diritto che gli uomini hanno — almeno pari alla mobilitazione per allargare a tutti e tutte il diritto a sposarsi.

L’Irlanda è dunque buona o cattiva? Entrambe le cose, come ogni paese sulla faccia della terra, come ogni umano e ogni società che l’essere umano crea. Sui social network, come sui media tradizionali prima di loro, si tende ad appiattire e si offrono narrazioni parziali vendute per assolute. La realtà è invece complessa: usare le potenzialità della Rete per rendere conto di questa complessità è un passo avanti e potrebbe gettare le basi per una mobilitazione per i diritti di tutti e tutte.

Foto “Wedding rings” di Jeff Belmonte dal Cuiabá, BrazilFlickr. Con licenza CC BY 2.0 tramite Wikimedia Commons.