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Pronti per il corridoio umanitario

Il progetto “Mediterranean Hope” (MH) della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) è costituito da un osservatorio sull’isola di Lampedusa, dalla Casa delle culture di Scicli (Rg) e da un “Relocation desk” a Roma. Una quarta sezione del progetto è in via di sviluppo in collaborazione con la Comunità di Sant’Egidio: un corridoio umanitario in Marocco. Abbiamo intervistato il pastore Massimo Aquilante, presidente della Fcei, per chiedergli dello stato d’avanzamento del progetto.

Come sta procedendo l’apertura con Sant’Egidio di un corridoio umanitario in Marocco, nell’ambito del progetto Mediterranean Hope?

«Abbiamo effettuato la seconda missione pochi giorni fa, incontrando a Rabat l’ambasciatore italiano, i rappresentanti del governo del Marocco responsabili per l’immigrazione e l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur), che fa un lavoro simile a quello che vogliamo impostare noi, e che ci ha garantito il suo appoggio. A Tangeri siamo tornati a incontrare i responsabili della diocesi con cui il progetto avvierà una stretta collaborazione. Noi siamo pronti, ora tocca alle autorità italiane dare risposte definitive e certe. I contatti col Ministero degli Esteri sono già avviati, e siamo in attesa che il Ministero dell’Interno autorizzi la quota di visti umanitari a disposizione. Si è sinora parlato di circa mille visti. Senza questo accordo non abbiamo nessuna autorevolezza per avviare il progetto. Contiamo sul fatto che anche questo aspetto si sblocchi al più presto».

La comunità internazionale e le chiese sorelle sono interessate all’idea del corridoio umanitario. Quali sostegni sono arrivati?

«C’è una bella novità: le chiese protestanti in Austria, che hanno un accordo con il loro governo, sarebbero pronte ad accogliere 200 persone. Questo ramo del progetto MH non ha come obiettivo la risoluzione dell’intera questione dell’immigrazione. E’ un progetto pilota, che ha a che fare con piccoli numeri, e che vuole essere segnale di buona pratica. Se gli altri governi europei la vorranno cogliere, allora questa buona pratica può preludere a una revisione del Regolamento di Dublino e della legislazione europea. Dal nostro punto di vista saremmo pronti a iniziare anche tra una settimana. A fine giugno andremo a Bruxelles a presentare il progetto alle istituzioni dell’Unione europea. Abbiamo chiesto un’audizione col presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, e stiamo provando a ottenere un incontro con Federica Mogherini».

Dopo l’autorizzazione da parte del ministero dell’Interno, quali saranno i primi passi da fare?

«La prima cosa da fare sarà la costituzione del team che lavorerà in Marocco. Dopodiché il lavoro prevede la creazione di un desk che incontri i migranti, attraverso il filtro della diocesi di Tangeri, e che verifichi la situazione del migrante, sia per quel che riguarda la documentazione in suo possesso, sia per il suo progetto di migrazione (dove vuole andare, che tipo di visto richiede ecc.). Non ci sono dunque per il nostro lavoro degli automatismi prefissati. Tutto si gioca sul contatto con le persone, quindi la mediazione culturale avrà un ruolo essenziale. La sfida sarà entrare in possesso di tutta la documentazione necessaria all’ottenimento del visto umanitario. Senza tutti i documenti richiesti non si potrà procedere oltre: su questo l’ambasciatore italiano è stato molto chiaro».

Questo non limita l’azione del desk? Ci sono molti migranti che scappano dalla guerra e che non hanno i documenti e non possono ottenerli nel loro paese di origine.

«Proprio questo è il centro del progetto. Il nostro lavoro è di accompagnamento. Risolte le questioni preliminari, si verificherà che cosa manca alla buona riuscita della richiesta. Il nostro desk a quel punto accompagnerà il percorso della persona, l’aiuterà a reperire i documenti mancanti, mediando la pratica con l’ambasciata italiana. Non sarà quindi solo un lavoro burocratico e notarile, bensì un lavoro di accompagnamento dal Marocco all’Italia, anzi dal Marocco verso il paese che il migrante indicherà come propria meta».

Servirà dunque un ufficio dedicato a questo compito a Roma?

«C’è già a Roma un settore del progetto MH chiamato “Relocation desk” pensato per gli ospiti della Casa delle culture a Scicli, che svolgerà le proprie funzioni per tutti i migranti del progetto MH, compresi quelli del corridoio in Marocco. Questa sezione del progetto MH è pensata per accompagnare la concretizzazione del progetto di vita dei migranti».

Ci sono altri progetti simili in altri paesi europei?

«Noi siamo i primi a fare questo tipo di progetto, non ce ne sono altri in Europa. Siamo stati i primi per quel che riguarda tutto il progetto MH. Da qui l’interesse delle chiese sorelle di tutta Europa e anche dagli Stati Uniti. Il Consiglio nazionale delle chiese degli Stati Uniti (Nccusa) ha formalmente sottoscritto un partenariato con noi. Sinora il progetto MH costituisce un’unicità, perché è un’azione che mette insieme la vocazione evangelica, la testimonianza comune delle chiese, la solidarietà umana, e politica. Riceviamo espressioni di grande interessamento proprio per questa miscela. Se riuscirà questa buona pratica in Marocco, si può pensare che negli anni venturi le grandi chiese potranno organizzarsi meglio di quanto possiamo fare noi, e convincere i rispettivi governi a seguirle in questa buona pratica».

Foto P. Romeo/Riforma