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Riuscire sempre a vedere il bene

Il 9 maggio 1978 il corpo del politico Aldo Moro fu ritrovato nel portabagagli di un’automobile, in via Caetani (Roma), vicino la sede della Democrazia Cristiana. Con una telefonata, alcuni membri delle Brigate Rosse annunciarono alla segreteria della DC che il corpo senza vita dello statista si trovava in una Renault 4. A pochi giorni dal 37° anniversario della sua morte, incontriamo Agnese Moro, figlia dello statista Aldo, con la quale proviamo a fotografare alcuni aspetti importanti della sua vita: dal rapporto personale con il papà alla nebbia che aleggia ancora intorno al suo assassinio, fino al suo impegno instancabile nelle scuole, fra i detenuti per l’abolizione dell’ergastolo.

Sono trascorsi 37 anni dalla morte di Aldo Moro. Quale ricordo di tuo padre ti accompagna nella vita quotidiana?

«Quello della mano che mi dava la sera mentre mi addormentavo quando ero piccola. Non succedeva tanto spesso; le sue assenze erano tante. Ma quando era a casa mi faceva dire le preghiere e poi mi teneva la mano. Mi rassicurava molto, perché ero molto paurosa. Quella mano è come se fosse rimasta anche quando sono diventata grande e dopo la sua morte. È una bella compagnia.»

Come hai vissuto la morte del politico, dello statista che, prima di tutto, è stato un padre?

«Purtroppo sono solo gli uomini che muoiono e io ho vissuto la morte di mio padre. La sua vicenda mi è sembrata tutta così ingiusta: averlo scelto come simbolo del vecchio, mentre cercava il nuovo (le Brigate Rosse); averlo stigmatizzato, abbandonato e sacrificato (coloro che avrebbero potuto e dovuto fare qualcosa per aiutarlo). Ho patito e patisco tantissimo il fatto di non averlo potuto salutare e dirgli qualcosa che potesse portare con sé.»

Che rapporto hai con il cognome che porti e con l’eredità di tuo padre?

«Un rapporto difficile e un po’ contraddittorio. Avrei voluto e vorrei una vita anonima e serena; ma sono anche contenta di aver conosciuto papà perché era davvero una bella persona. Vorrei che l’eredità, più che essere mia, fosse delle persone che, come lui, desiderano un paese giusto, che vive sulla responsabilità di ognuno di noi e dove ci sia tenerezza e posto per tutti.»

Nel maggio 2014 è stata istituita la Commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro, composta da trenta senatori e trenta deputati ed avrà ventiquattro mesi per presentare al Parlamento una relazione sulle risultanze delle indagini. È la terza volta che si decide di tornare a indagare su uno dei cosiddetti misteri irrisolti della Prima Repubblica. Siamo a metà del corso… Cosa ne pensi? Come mai ancora tanto “mistero” intorno alla morte di Aldo Moro?

«Malgrado gli annunci ad effetto mi sembra che per ora la Commissione abbia solo riproposto vecchi interrogativi senza scioglierne nessuno. Staremo a vedere. A volte penso che, invece di inseguire misteri che il tempo trascorso rischia di rendere insolubili, sarebbe bello per una volta prendere sul serio le cose che già sappiamo (la presenza invasiva della loggia massonica P2, l’inconcludenza delle indagini, la strana tiepidezza e unanimismo della classe politica e intellettuale, la chiusura del governo di allora ad ogni possibile aiuto), e trarne le dovute conseguenze.»

Cosa è significato per te incontrare alcuni dei brigatisti che furono artefici della morte di tuo padre?

«La possibilità di conoscere delle persone, e non di avere la mente popolata da mostri. Capire le loro motivazioni di allora. Capire il loro percorso critico, il loro dolore, le cose positive che fanno.»

Nel tuo impegno instancabile nelle scuole, nelle carceri, colpisce sempre il significato che dai alla parola “perdono”. Che senso dai a questa parola?

«Non significa essere buoni, né dimenticare ciò che è stato, né minimizzare il male che è stato compiuto. Il perdono non è un sentimento, ma una decisione, quella di lasciare da parte odi e rese dei conti e guardare gli altri come persone che sono state… ma che oggi sono altro. C’è un altro modo per fermare quella catena del male che, partendo da un gesto violento, che si pensa unico, seguita a seminare dolore a distanza di anni e anni, senza che nessuno lo voglia.»

Sei anche impegnata per l’abolizione dell’ergastolo. Perché?

«La nostra Costituzione prevede sanzioni e pene che devono servire per chi ha fatto cose gravemente sbagliate a fare una dolorosa riflessione, e ad arrivare a un ripensamento. Non per punirli o per vendicarci, ma perché li rivogliamo indietro a fare la loro parte come tutti noi. L’ergastolo contraddice radicalmente questo desiderio e questa prospettiva.»

Un insegnamento, un “testamento spirituale” che ti ha lasciato tuo padre e che vuoi condividere con i lettori e le lettrici di Riforma…

«Per la verità sono tanti, fatti di parole, di azioni e di modi di vivere. Ma quello che forse in questo momento della mia vita mi è più caro è la sua capacità di vedere il bene, anche quando è apparentemente piccolo e poco appariscente. E la sua profonda convinzione che il bene sia – non in un futuro escatologico, ma già oggi – più capillarmente diffuso, forte e fattivo del male.»