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L’amara ironia di Benjamin Murmelstein

Questa è la mirabile storia di un’ingiustizia e di un mancato riconoscimento e di come il protagonista, che la subisce, non vi si sottragga ma anzi, persegua il suo intento senza aspettarsi altro che il compimento di ciò che deve essere fatto. E’ la storia vera dell’ultimo Judenalteste, Benjamin Murmelstein, il rabbino di Vienna nominato decano a capo del Consiglio ebraico voluto dai nazisti per il “ghetto modello” – secondo la definizione di Eichmann – di Theresienstadt, a 60 chilometri da Praga. I suoi due predecessori erano stati uccisi a bruciapelo; Murmelstein sopravvisse alla fine della guerra ma fu accolto con sospetto dai vincitori che guardavano con orrore e incredulità alla macchina da sterminio dei campi di concentramento e che di fatto lo trattarono come un traditore. Come aveva fatto a salvarsi? Non aveva per questo concesso qualcosa al nemico?

E così, con l’amara ironia che nasce dalla compassione, Murmelstein, unico dei decani dei ghetti d’Europa sopravvissuti alla Shoah, parla di sé definendosi “l’ultimo degli Ingiusti”, in una lunga intervista a Claude Lanzmann, registrata per un’intera settimana del 1975 e che poi servirà all’omonimo documentario che il regista farà uscire nel 2013.

Dal 1941 al 1945 arrivano al campo di concentramento di Theresienstadt 140mila ebrei: nella città costruita dai nazisti per mostrare come vengono trattati bene gli ebrei, ne muoiono di stenti 33mila e altri 88mila sono deportati in altri lager. Theresienstadt è il giocattolo di Eichmann, la bambola che si diverte ad abbellire mentre dietro lo scenario di cartapesta si preparano le fosse e si raccolgono le ceneri. «La città era costruita su una maledizione – ricorda il rabbino – a Theresienstadt comincia l’inganno. La gente doveva convivere con quella bugia (…). La città del come se, dove si vive come se… Come se fosse caffè, come se fossero pasti, come se fosse lavoro. Ma non si mangiava, non si lavorava, non si faceva niente. Era tutto un imbroglio». Eppure questa tragica messinscena doveva durare – così anche nelle parole di Murmelstein – perché finché durava, finché il suo decano riusciva a reggere il gioco e a «raccontare storie come Sherazade» la soluzione finale si allontanava di qualche passo. «Eichmann – dice Murmelstein – aveva un interesse particolare su Theresienstadt. Se potevamo fare in modo che la esibisse al mondo, per noi era la salvezza, Theresienstadt non poteva più sparire. Questo significava che dovevamo prostituirci e recitare in quella farsa». Il suo era un “potere senza potere”: la sfida era «ottenere qualcosa senza avere un reale potere». Un magistrale gioco di scacchi col nemico che può ucciderti ogni giorno ma che ha bisogno di te per tenere viva la finzione. Così come era una maschera la surreale proposta di Hitler di portare tutti gli ebrei in Madagascar, soltanto un altro nome per indicare la “soluzione finale”.

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Murmelstein dopo la guerra fu processato per collaborazionismo dai cecoslovacchi e poi assolto. Avrebbe potuto andarsene e sottrarsi al processo, ma non lo fece. Avrebbe desiderato moltissimo andare in Israele ma non ci riuscì, finendo i suoi giorni a Roma, malvisto dalla comunità ebraica romana, che alla sua morte lo fece seppellire in un angolo del cimitero, quello riservato ai suicidi. Il libro di Lanzmann lo restituisce nella sua grandezza schiva, scavando nei ricordi e nell’intimità dolente e contrastata di un uomo che sa rispondere con lucida onestà, senza quindi rinunciare alla complessità dei sentimenti e delle motivazioni che l’hanno sostenuto. Al contempo, emerge dall’ombra la figura sinistra e terribile di Eichmann, descritto come «demonio», imprevedibile, crudele, corrotto (c’era lui dietro la truffa dell’operazione colombiana, che nel ’38 spinse moltissimi ebrei a pagare dei visti per l’emigrazione che risultarono falsi): la banalità del male evocata da Hannah Arendt per Eichmann, secondo Murmelstein, era “ridicola” e la sua figura, al processo tenuto dopo la guerra in Israele, fu sminuita, «venne fuori in modo completamente sbagliato».

Se in molti casi – Arendt per prima – si è parlato con incredulità della passività degli ebrei, che si lasciarono nella maggior parte dei casi condurre allo sterminio come pecore al macello, qui Lanzmann testimonia invece della tenace, indefettibile “resistenza attiva” di un ebreo che, senza avere il potere di farlo, di fatto spostò i pezzi giusti sulla scacchiera salvando molte vite, senza averne mai niente in cambio.

Claude Lanzmann, L’ultimo degli ingiusti, Skira 2014