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La lotta come dimensione di vita

Margherita è una regista di mezza età che combatte tra le riprese di un film impegnato e impegnativo e l’accudimento della madre morente. Mia madre non è un film sul lutto, non è una riproposizione de La stanza del figlio, ma un film sulla vita come lotta, dove ogni luogo — ogni set — è un campo di battaglia, dove ogni relazione è fatica, una fatica spesso sprecata perché non porta a nulla. Detto così, sembrerebbe un film pessimista, ma non lo è: l’umanità descritta in Mia madre trova il suo senso proprio nella capacità di lottare, di ribellarsi a scelte obbligate e di essere in grado di affrontarle nel momento in cui bisogna alzare bandiera bianca. Scelte, etica e dignità: non a caso, il film che Margherita sta girando si chiama Noi siamo qui.

Con Mia madre Moretti torna a raccontare una storia usando il cinema come set: è un esempio di metacinema. Il grande attore Barry Huggins che viene dall’America per recitare il nuovo padrone straniero di una fabbrica italiana in ristrutturazione in Noi siamo qui è infatti il grande attore americano John Turturro che recita in Mia madre. Moretti usa il set della produzione di un film per raccontare lo smarrimento del periodo che precede un grande lutto. È un periodo in cui la vita sembra irreale e si sognano cose fatte e cose che sarebbe stato bello fare, ma che oramai risultano irrealizzabili. Ecco che la fabbrica dei sogni si presta perfettamente.

Margherita sogna. Sempre stanca, spesso si addormenta e non sempre al pubblico è dato di capire se la scena che sta vedendo sia sogno o realtà. Sogna che la madre sia morta oppure che sia viva e lasci l’ospedale con le sue gambe. Sogna di essere ancora ragazza, poi si sveglia e, dura realtà, si trova la casa allagata — non si sa perché: che sia anche questo un sogno?

Margherita sogna come in un film di Fellini, più precisamente come in 8½, altro film dove il cinema stesso era il set della vita e dove il protagonista è l’alter ego del regista. Il sogno più suggestivo, più — appunto — felliniano, è quello in cui lei passeggia per Piazza Montecitorio a Roma, davanti al — ormai defunto — cinema Capranichetta, dove danno Il cielo sopra Berlino di Wenders e una fila chilometrica attende con ordine di entrare. In quella fila, che lei passa in rassegna in senso opposto, ci sono tutti i personaggi della sua vita, anche Margherita da giovane che “recita” sempre la stessa parte che reciterà per tutta la sua esistenza: una donna al comando, superiore alle persone con cui si relaziona.

Qui spunta il grande tema di Mia madre: il potere, che lo collega direttamente a Il caimano e Habemus Papam, i due film precedenti di Moretti. Margherita è una donna di potere, come uomini di potere erano il non rappresentabile Berlusconi e il riluttante cardinale Melville/papa Francesco — eh sì, nella sceneggiatura questo era il nome che aveva scelto —. È una donna che fa e disfà, che sa che alcune cose è meglio farle da sola, in grado di mettere subito la relazione in chiaro con la star americana — della serie “giù le mani, qui comando io” —, che decide quando cominciare e terminare una relazione. Ed è una donna che davanti alla propria impotenza si paralizza: incapace di affrontare il morire della madre così come non riesce a capacitarsi che la figlia adolescente le abbia nascosto un’importante delusione d’amore.

Tutto ruota intorno a lei, perché è brava, è capace, ha una reputazione solida. Tuttavia, il senso del potere viene riassunto in una battuta folgorante. Margherita si lamenta di come sta venendo una scena e i suoi assistenti le dicono che stanno facendo solo quello che ha detto lei di fare. «Un regista è solo uno stronzo a cui lasciate fare di tutto», urla lei. Il re è nudo, il potere si sostanzia per colpa dei sottomessi, ma la rivelazione viene dall’alto, dal potente.

Legata al potere, in Mia madre è presente anche una rappresentazione del rapporto tra personale e politico, tema caro alle femministe negli anni Settanta, già indagato da Moretti in Aprile (1998), con grande scandalo di molti. Margherita rappresenta anche un’intellettuale borghese incapace di guardare alla realtà politica. Questo è evidente nell’alienazione rispetto alla vera realtà della classe operaia contemporanea: si lamenta col casting perché ha selezionato come comparse uomini e donne troppo curati per fare gli operai della fabbrica e cade dalle nuvole quando le viene detto: «Ma guarda che gli operai sono così oggi». Margherita è una regista politicamente impegnata che non vive la realtà che vuole raccontare.

L’ambizione di Mia madre è di fare un film “normale” — ammesso che questo aggettivo si possa usare per il cinema di Moretti. Mia madre è tecnicamente raffinato: non un’inquadratura o un movimento di camera sbagliato e, ancora più importante, non è un esercizio di stile, ovvero la tecnica non disturba la narrazione, ma la facilita. Il livello ormai raggiunto da Nanni Moretti è talmente maturo che la domanda se il suo ultimo film sia ben riuscito quasi perde di senso. Il regista autarchico per antonomasia ha ormai imparato a fare un’altra cosa, una cosa che dal 1976 al 2001 non gli era riuscita: l’attore non protagonista. Come nei suoi precedenti Il caimano e Habemus Papam, infatti, Moretti riesce ad essere presenza importante, ma discreta nel film, liberando la narrazione dalla sua figura ormai troppo caratterizzata e ingombrante, anzi usando la sua maschera per alleggerire la drammaticità. Resta ai margini ed elegge altri al ruolo di alter ego dell’autore — Jasmine Trinca, Michel Piccoli e Margherita Buy — liberi di poter “pontificare” sul cinema, sull’Italia e sul mondo con una voce e un corpo diverso da quelli del regista.

Potere e vita, personale e politico, racchiusi in una dimensione che oscilla tra realtà e sogno: pochi sono in grado di fare questo nel cinema. Nanni Moretti ci riesce. E in Italia serve ancora di più.

Foto “Nanni Moretti” by Marco Calvani from Rome, Italy – Ecce Nanni. Licensed under CC BY-SA 2.0 via Wikimedia Commons.