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L’integrazione è bilaterale

Quando si parla di immigrati ritorna spesso la parola integrazione, quasi sempre per denunciare il fatto che loro non si integrano. L’ opinione comune è quindi che l’integrazione sia un processo unilaterale – quello di un immigrato – che deve faro lo sforzo per adattarsi alla realtà in cui si inserisce, abbandonando così le sue tradizioni per adottare un nuovo stile di vita. Integrazione, insomma, come assimilazione, spinta a diventare simili alla maggioranza. Via dunque gli abiti tradizionali, via la lingua dei padri e dei nonni, via il cibo di casa, via anche le abitudini e i valori propri di una cultura per abbracciare un nuovo stile di vita da persona finalmente integrata.

Sì alla polenta, no al couscous affermava solo alcuni anni fa una certa propaganda politicano al kebab, allora, ma anche no al velo islamico, no al turbante hindu, nessun riguardo nelle mense scolastiche alle prescrizioni alimentari delle varie tradizioni religioni; fino ad arrivare, nei casi estremi, a no a moschee e minareti, no anche all’apertura di chiese e luoghi di culto delle comunità religiose di minoranza. E tutto questo nel nome dell’integrazione, come accade in alcuni Paesi europei, e perfino in alcune regioni italiane, dove si sono approvate norme altamente restrittive in materia di luoghi di culto.

La storia dei grandi paesi di immigrazione come gli Stati Uniti, il Canada, il Regno Unito, l’Olanda suggerisce che l’integrazione può essere anche altro. Non un percorso unilaterale, ma un avvicinamento reciproco tra nazionali e immigrati, per un percorso bilaterale e reciproco, e quindi compiuto sia dagli immigrati che dai nazionali per cercare una convivenza equilibrata e sostenibile. La migliore integrazione, crediamo, salvaguarda tradizioni, valori e costumi di tutti, ma nel quadro di un sistema condiviso di diritti e di doveri. Insomma, non c’è integrazione senza rispetto per le identità, ma ogni vera integrazione implica l’impegno leale per la difesa del bene comune, nella pluralità delle idee, delle scelte etiche, dei destini di vita.

Anni fa andava molto di moda la metafora del melting pot, il famoso crogiolo americano nel quale tradizioni e costumi diversi si fondevano per generare un uovo metallo di sintesi. Oggi si preferisce l’immagine dell’ insalatiera dove verdure diverse si amalgamano l’una con l’altra, senza perdere il proprio sapore e la propria consistenza. È questa l’idea di integrazione che si sta affermando in molte chiese evangeliche, anche in Italia, arricchite dalla crescente presenza di immigrati. Un cammino che impegna nazionali e nuovi arrivati; un cammino che non intende cancellare tradizioni e identità differenti ma vuole accostarle in un comune percorso di fede, spiritualità e testimonianza. È questo il percorso denominato «Essere chiesa insieme»: insieme nella diversità come fu, cinquanta giorni dopo Pasqua, a Pentecoste, quando di popoli e genti diverse lo Spirito santo fece una sola comunità di credenti.

Foto: Una stretta di mano: simbolo di amicizia profonda, di Rufino, licenza CC BY-SA 2.0