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L’avvenire dello Stato Islamico

Parliamone. Come fosse un’azienda che vuole conquistare il mercato globale. Anche se in questo esatto momento la “casa madre” in Siria e Iraq appare un po’ impantanata in una guerra di posizione, il brand dello Stato Islamico incassa però un notevole successo in altre aree. E cominciano ad essere non pochi quelli che operano in franchising, in accordo o meno con l’amministratore delegato Abu Bakr al-Baghdadi. La “filiale” più nota è quella nigeriana di Boko Haram che, pur avendo sufficiente isteria autonoma, apprezza il valore aggiunto che gli deriva dall’accorparsi con la sede centrale. In Somalia il gruppo Al-Shabaab sta discutendo se lasciare la vecchia ditta, Al Qaeda, e affiliarsi alla nuova. Nel Caucaso la scelta a favore dell’Isis pare ormai decisa. Non distante da casa mia (Cirié, Lanzo) sono stati arrestati due ragazzi che, pare, facessero, più che i reclutatori veri e propri, i piazzisti dell’autoproclamato Califfato, sognando magari di diventare i responsabili di una succursale subalpina. Altri, altre, aspirano a entrare nei ranghi. Il web marketing aggressivo dell’Isis o Stato Islamico (Is) o Califfato o Daesh è molto evoluto. Non lascia indifferenti. La griffe fa gola, oltre a tagliarla.

L’orrore crea adepti, Caino riscuote simpatia, come sappiamo dalla storia europea del Novecento. E’ non è la prima volta nella storia dell’umanità che qualcuno tenta di assurgere ad autorità politico-religiosa attraverso la barbarie più feroce. Dice la teologia salafita ispiratrice dell’IS che tutti gli essere umani nascono in qualche modo musulmani e solo la nociva influenza di altre fedi li porta alla perdizione. Noi ti proteggiamo, ti diamo un orizzonte e siamo spietati con i nostri comuni nemici, sembra essere il logo di successo. La campagna promozionale funziona, dà sfogo ad un risentimento e lo trasforma in vendetta sanguinaria, cioè in un investimento sul futuro. Il tempo torna ad essere orientato, va da qualche (terribile) parte, non è più svuotato ed insaccato in un eterno presente.

L’egemonia dello Stato Islamico però va conquistata, a suon di accordi e sgozzamenti. E’ in atto una – come chiamarla? – guerra civile con gli altri gruppi jihadisti. I vari settori che si rifanno ad Al Qaeda non sono Stato, sono più frazionati, ma più adattabili alle diverse situazioni. Alla lunga potrebbe essere un vantaggio.

Dell’incandescente Caucaso si è già detto. E non è un problema che riguardi solo il Putin. Di Libia, Tunisia, del Maghreb siamo più che informati, così come dell’Afghanistan e del Pakistan. Ma l’export dell’Isis è arrivato in Cina con militanti-combattenti uiguri tornati dopo essersi fatti le ossa in Siria. Gruppi radicali si agitano nell’occidente della Cina tra la popolazione musulmana con cui il governo cinese non è mai andato tanto per il sottile. Adesso ha l’occasione per impostare una sua inedita strategia militare che ci riserverà qualche sorpresa. In Malesia alcuni lupi solitari sono stati arrestati. Nelle Filippine gruppi jihadisti o separatisti si sono dichiarati disponibili ad un’alleanza con l’Isis. Nel più grande paese musulmano del mondo, l’Indonesia, la cui vita pubblica è regolata da una dottrina pluralista, Pancasila, alcune frange estremiste si sono però collegate all’Isis. I paesi del Golfo, la Thailandia, la Turchia…

Lo Stato Islamico si va così configurando come un cartello, una specie di super Califfato, una holding politico-religiosa sotto cui si agitano formazioni e storie molto diverse, ma unificate da un potente sogno nero, quello di raccogliere il furore del mondo e trasformarlo in shari’a, in legge ordinatrice, di celebrare l’ossessione fallica degradando le donne a comfort women, di stipare le diversità umane nella cieca coppia fedele/infedele, di concedersi qualsiasi traffico in quanto timorati di un dio rabbioso e giustiziere.

C’è qualcuno che pensa di togliere futuro allo Stato Islamico con bombardamenti a tappeto e sciami di droni inferociti.

Copertina: “Isis-iraq45458c“. Con licenza CC BY 4.0 tramite Wikipedia.