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400 mila schiavi “invisibili” nell’agricoltura italiana

In Italia, da Nord a Sud, tanto nella raccolta degli ortaggi in Piemonte quanto nei campi di pomodori a Foggia, circa 400 mila migranti prestano le proprie braccia all’agricoltura. Questa popolazione di stranieri, assoldati e malpagati da caporali e imprenditori, diventa protagonista di storie di sfruttamento lavorativo ed esistenziale al limite della schiavitù: lavorano a nero dalle 12 alle 16 ore al giorno per paghe misere; vivono in alloggi fatiscenti e squallidi nei tantissimi ghetti sorti lontano dai centri urbani e da occhi indiscreti. Ne parliamo con Jean Renè Bilongo, responsabile del coordinamento immigrati della Federazione lavoratori agroindustria (Flai), sindacato di categoria della Cgil.

Qual è la situazione dei lavoratori migranti nel settore dell’agroindustria?

Decine di migliaia di migranti lavorano nell’agricoltura italiana in condizioni indecenti. Il secondo rapporto Agromafie e capolarato, redatto dall’Osservatorio Placido Rizzoto per conto della Flai-Cgil, afferma che sono circa 400 mila gli immigranti “invisibili” che lavorano nell’agricoltura tramite i caporali, di cui circa 100 mila vivono forme di grave assoggettamento dovuto a condizioni abitative e ambientali considerate paraschiavistiche. Più del 60% dei lavoratori e delle lavoratrici costretti a lavorare sotto caporale non ha accesso ai servizi igienici e all’acqua corrente. Ci sono in giro per l’Italia accampamenti spontanei in cui questi lavoratori si aggregano e vivono a centinaia in situazioni di grande sofferenza e negazione della dignità del lavoro. Questo fenomeno riguarda tutta l’Italia, non solo il Sud ma anche i distretti di eccellenza come i vigneti della Franciacorta in Lombardia e i meleti in Trentino.

Chi ci guadagna di più?

Gli imprenditori agricoli, i caporali e le organizzazioni criminali che organizzano e gestiscono il mercato delle braccia. Mentre ci perde il lavoratore in termini retributivi e contributivi. I lavoratori impiegati dai caporali percepiscono un salario giornaliero inferiore di circa il 50% di quello previsto dai contratti nazionali e provinciali di lavoro, cioè circa 25/30 euro per una giornata di lavoro che dura fino a 12 ore continuative. A questo bisogna aggiungere le “tasse” che il lavoratore paga al caporale per il trasporto (circa 5 euro), l’acquisto di acqua (1,5 euro a bottiglia) e di cibo (3,5 euro per un panino). Infine ci perde anche lo Stato: solo in termini di mancato gettito contributivo, il caporalato costa più di 60 milioni di euro l’anno.

Quale può essere l’azione di contrasto?

Siamo convinti che la lotta al capolarato si articoli in due direzioni: da una parte ci devono essere più controlli, che in Italia non sono mai sufficienti, dall’altra ci vuole un intervento pubblico. Occorre individuare un luogo in cui la domanda e l’offerta di lavoro in agricoltura si possano incontrare alla luce del sole. Finché la domanda e l’offerta s’incontrano nel cellulare del caporale, lo sfruttamento continuerà ad esserci. Invece, dobbiamo costituire un luogo trasparente, controllato e controllabile in cui le due dimensioni si incontrano. Credo che in questo modo daremmo un contributo importante per contrastare la piaga del caporalato.

A livello normativo come si configura il contrasto al capolarato?

Nel 2011 è stato inserito nel codice penale l’art. 603 bis che contempla il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Ma c’è ancora tanta strada da fare. Crediamo, infatti, che sia necessario estendere le responsabilità, quindi anche la sanzionabilità, alle aziende: non può rispondere del reato solo il caporale, ma anche gli imprenditori che si avvalgono della loro intermediazione. Abbiamo più volte evidenziato la scarsa applicazione della direttiva europea n. 52, che prevede sanzioni e provvedimenti nei confronti dei datori di lavoro che impiegano cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, e che avrebbe dovuto assicurare un regime di protezione speciale per i lavoratori e le lavoratrici sfruttate. In particolare sono le donne e i bambini ad essere l’anello più debole dello sfruttamento, le prime spesso costrette a essere inserite nel circuito dello sfruttamento della prostituzione e i secondi costretti a lavorare in condizioni indecenti nonostante la giovane età.

Si parla poco della condizione delle lavoratrici migranti impegnate nell’agricoltura…

La situazione delle donne è particolarmente delicata e grave, nel senso che le migranti oltre a subire il capolarato, come gli altri lavoratori, devono patire anche gli assalti libidinosi dei datori di lavoro. Tempo fa le cronache hanno parlato della situazione delle lavoratrici di Vittoria (Ragusa) ma in giro per l’Italia sono tanti i luoghi in cui le donne oltre a lavorare 10 ore al giorno devono anche soddisfare i datori di lavoro e i caporali sul piano sessuale.

Recentemente è stata avviata una sinergia tra la Flai e il Servizio rifugiati e migranti della Federazione delle chiese evangeliche in Italia. Di cosa si tratta?

Siamo convinti che, nonostante il nostro impegno, da soli non possiamo contrastare un problema così complesso, articolato e radicato come quello del capolarato e dello sfruttamento dei migranti occupati in agricoltura. Allora abbiamo bisogno di costruire delle alleanze strategiche che sappiano coniugare l’azione del sindacato nella tutela dei diritti dei lavoratori con le iniziative che le comunità di fede, cui fanno riferimento molti lavoratori e lavoratrici agricoli migranti, mettono in campo per difendere le persone. La convergenza, cui stiamo cercando di dar vita insieme al Srm-Fcei, vuol essere un’alleanza per proporre maggiori vie di fuga dallo sfruttamento a chi rischia di cadere nella sua rete, considerando che molti immigrati frequentano i luoghi di culto nei quali ritrovano una parte importante della loro identità. In questo quadro si inserisce il seminario di formazione che si è svolto lo scorso 28 febbraio a Cerignola, una prima esperienza che vorremmo portare anche altrove. Solo unendo le nostre forze e condividendo le nostre competenze, potremo spezzare le catene di queste nuove schiavitù».