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Voto negli Usa, primi movimenti

La campagna elettorale  per le elezioni presidenziali negli Stati Uniti si aprirà il 18 gennaio 2016, e il voto si terrà in autunno, sempre il prossimo anno. Mancano ancora molti mesi ma stanno iniziando, come logico aspettarsi, le grandi manovre fra le varie lobby presenti nei partiti democratico e repubblicano per individuare i nomi che si giocheranno la candidatura durante le rispettive convention, che andranno ad indicare i due sfidanti che si batteranno per il dopo Obama.

E se da parte democratica le acque paiono scorrere placide, con Hillary Clinton candidata forte, e poche alternative in attesa che l’ex first lady sciolga le ultime riserve, nel quartier generale repubblicano la situazione è assai più fluida e di non semplice lettura. I nomi più forti da questa parte della barricata sono ancora quelli di Mitt Romney, miliardario mormone già più volte in corsa per la Casa Bianca, e di Jep Bush, fratello minore di George e figlio ovviamente dell’altro George, terzo protagonista quindi dell’epopea della potentissima e controversa famiglia di petrolieri texani, che da venticinque anni, in un modo o nell’altro, è fra  i protagonisti della politica e dell’economia a stelle e strisce. Ma entrambi i nomi non accendono le fantasie del popolo repubblicano seppur ne ricalcano i valori fondanti. Le posizioni anti aborto di Romney e la saga familiare ormai logora (ma ne siamo sicuri?) dei Bush appaiono come i due ostacoli principali all’ottenimento di un ampio consenso.

Ed ecco che nell’incertezza  avanzano vari e differenti nomi che più o meno motu proprio annunciano di essere in corsa per la presidenza: il primo a rendere nota la propria candidatura è Ted Cruz, 44 anni, un cognome che piacerà ai latini che ormai sono maggioranza nel paese, e un padre pastore protestante che rassicura la componente wasp, ormai mosche bianche ma con i portafogli pieni. Anti abortista, anti matrimoni gay, si è fatto un nome battagliando contro Obama sulle nuove norme per l’immigrazione (lui figlio di un esule cubano..) e contro la riforma sanitaria varata a prezzo di lacrime e sangue lo scorso anno. Sul suo terreno conservatore e fortemente religioso troverà però sfidanti di peso. Uno di questi è Mike Huckabee, ex pastore battista, ex obeso diventato un atleta dopo aver perso 50 chili ( tipica storia statunitense da self made man che tanto piace oltre Atlantico), capace di attirare gli elettori evangelici sui temi sociali, ma distante dai grandi nomi della finanza Usa, iperliberisti e antitasse.

Meno forte pare la candidatura di Rick Santorum, anche lui come Huckabee già in corsa in passato: ultra cattolico ( si fece un nome con la battaglia pro life ai tempi della povera Terry Schiavo), di origine italiane, sette figli, anti abortista e anti matrimoni gay anch’esso.

Nomi tutti questi che paiono poter essere molto graditi all’elettorato conservatore, sia esso cattolico o protestante. I fatti hanno però già dimostrato che queste componenti sono ormai ben lontani dall’essere maggioranza nel paese, dove dominano fortunatamente posizioni più moderate, per cui le posizioni di questi tre candidati appaiono troppo di destra per poter rappresentare una reale alternativa al partito democratico. Anche negli Usa la religione non ha più il ruolo chiave del passato, le contaminazioni culturali di una delle società più multietniche del mondo hanno  spostato l’asse su altre battaglie (sociali, sanitarie, di sicurezza), per cui più che le posizioni care alle egemonie religiose, rischiano di esser decisivi i voti delle comunità etniche (ispaniche soprattutto). Per questi motivi i soldi e la rete di relazioni della famiglia Bush rischiano di contare molto di più di una battaglia contro l’Obamacare o per la tutela della famiglia tradizionale.

Foto: Il Campidoglio (Washington), di pogo_mm, via Pixabay