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Verso un jihadismo globale?

Boko Haram, gruppo terroristico jihadista che conosciamo per il rapimento di 300 studentesse l’anno scorso e per l’ininterrotta uccisione di studenti e civili, ha giurato fedeltà al Califfato di Abu Bakr al Baghdadi. I quotidiani parlano di “adesione allo Stato Islamico” e delle violenze di cui il gruppo si è macchiato nuovamente negli ultimi giorni. «È un adesione ideologica, ma al momento è difficile immaginare un collegamento materiale», ci dice Stefano M. Torelli, ricercatore dell’Ispi, ma che si inserisce nella complessa realtà nigeriana, che attende le elezioni a fine marzo: «Boko Haram sta evidentemente cercando di entrare in quel processo mediatico che coinvolge l’Isis».

Come possiamo leggere questa affiliazione?

«Mi viene da pensare che questa alleanza formale, dichiarata da Boko Haram allo Stato Islamico e al califfato di Al Baghdadi è più che altro da intendersi sotto il profilo ideologico: è un alleanza che vuole legittimare in parte il progetto di califfato e dall’altra serve a Boko Haram per ottenere più visibilità. Stiamo vedendo in questi mesi quanto l’Isis sia assurto agli onori delle cronache grazie a una strategia comunicativa del tutto nuova per gruppi jihadisti e stiamo vedendo quanto questa strategia stia funzionando. Anche noi in occidente siamo bombardati ogni giorno da messaggi, video, immagini, comunicazioni dell’Isis. Bolo Haram sta evidentemente cercando di entrare in quel processo mediatico che coinvolge l’Isis, come per dire che tutte le azioni di Boko Haram avranno più visibilità; per altro, semmai ci fosse bisogno di dare un messaggio più foriero di terrore. Anche perché Boko Haram, di tutti i gruppi jihadisti che esistono tra Africa e oriente, è uno dei più violenti. C’è da tenere a mente qual’è il contesto locale: dovranno esserci le elezioni a fine marzo, che già dovevano esserci il 14 febbraio, e proprio per il clima di instabilità a cui Boko Haram contribuisce, sono state rinviate. La Nigeria è la prima economia dell’Africa, un paese con grandi risorse energetiche, il primo produttore di petrolio: insomma delle dinamiche che fanno intendere come il gruppo stia cercando di portare l’attenzione sia sulla Nigeria, sia sulle proprie azioni. Quanto poi possano crearsi dei collegamenti materiali, è tutto da verificare e per il momento mi sembra abbastanza difficile immaginarlo».

Perché attirare l’attenzione in questo modo violento?

«L’obiettivo è destabilizzare un processo di normalizzazione politica che a fatica i politici nigeriani stanno cercando di portare avanti. Se è vero che le autorità nigeriane fanno fatica a arginare Boko, è anche vero che alcuni attori si stanno muovendo: c’è una coalizione militare formata da Ciad, Cameroun e Niger che sta cercando di combattere Boko che in parte potrebbe essere indebolito. Anche perché si trova in una fase difficile sul campo, sta cercando di alzare i toni e un messaggio come quello dell’unione con l’Isis può contribuire a questa strategia».

Che cos’hanno in comune i due gruppi?

«L’ideologia di fondo è comune, così come a tutti i movimenti jihadisti: ma un passo ulteriore che potrebbe essere fatto da Boko Haram è andare oltre rispetto ai massacri nei villaggi, e attentati, e puntare ad avere un controllo del territorio, come ha fatto l’Isis in Iraq e in Siria, instaurando una sorta di califfato anche in Nigeria». 

Se la strada della affiliazione è possibile, quante chance ci sono perché si arrivi a un movimento globale?

«Dipende dai singoli contesti locali. È più facile che avvenga in territori scarsamente controllati. Emblematico l’esempio della Libia, nella città di Derna sappiamo che è stato costituito una sorta di califfato che nominalmente fa parte del califfato di Al Baghdadi. In Nigeria ci sono parti di territorio che rischiano lo stesso. Per altri contesti come l’Egitto, la Turchia, la Tunisia e l’Algeria la situazione è diversa: ci sono gruppi che tentano di mettere in atto questa strategia, dove però le forze dello Stato e il contesto sono così diversi che risulta impossibile pensare che nel breve termine si possa pensare a un esito come quello della Siria e dell’Iraq».

Cosa pensa su come si sta raccontando l’Isis?

«Su questo vi è evidentemente un ampio dibattito, anche nel mondo dei media. Mi viene in mente l’annuncio di Monica Maggioni, direttrice di RaiNews24, che diceva che non avrebbero più trasmesso i video di propaganda dell’Isis per non dare visibilità. Una scelta controversa, soprattutto oggi, con l’uso di internet, è molto facile reperire questi messaggi e assistere alla propaganda dell’Isis. Fatti come quelli della distruzione di reperti archeologici e così via, sono fatti proprio per colpire l’immaginario dell’occidente, che ha una maggiore attenzione a questo tipo di discorso».

Foto “Mollweide-projection” di MdfOpera propria. Con licenza Pubblico dominio tramite Wikimedia Commons.