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A Strasburgo oggi si vota la “Risoluzione Tarabella” sulla parità di genere

Update: la mozione è stata approvata


Oggi il Parlamento europeo è di nuovo chiamato ad esprimersi sulla parità di genere: un atto quasi dovuto, parrebbe, vista l’urgenza del tema (e la disuguaglianza tuttora imperante anche negli stati aderenti), che non a caso viene riesumato nei dintorni della giornata della donna. La Relazione sulla parità tra donne e uomini nell’Ue, meglio conosciuta come “Risoluzione Tarabella”, che prende il nome dall’eurodeputato belga Marc Tarabella che l’ha presentata, è stata approvata lo scorso 20 gennaio dalla Commissione sui diritti del Parlamento europeo con 24 voti a favore, 9 contrari e 2 astenuti: la maggioranza schiacciante non garantisce però l’esito della votazione finale del 9 marzo. Infatti la macchina lobbistica di chi vuole far affondare la Risoluzione Tarabella, come successe alla sua omologa Estrela nel 2013 sui “diritti sessuali e riproduttivi” (che non passò per soli 7 voti, anche per l’astensione dei deputati del Pd Silvia Costa, Franco Frigo, Mario Pirillo, Vittorio Prodi, Patrizia Toia e David Sassoli) ha lavorato con molta solerzia.

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Che cosa inquieta del provvedimento in votazione, tutto teso a ribadire la necessità della parità dei sessi in famiglia e sul lavoro? Il punto14, che – quasi incidentalmente – tratta dell’aborto e, testualmente, «insiste sul fatto che le donne debbano avere il controllo dei loro diritti sessuali e riproduttivi, segnatamente attraverso un accesso agevole alla contraccezione e all’aborto; sostiene pertanto le misure e le azioni volte a migliorare l’accesso delle donne ai servizi di salute sessuale e riproduttiva e a meglio informarle sui loro diritti e sui servizi disponibili; invita gli Stati membri e la Commissione a porre in atto misure e azioni per sensibilizzare gli uomini sulle loro responsabilità in materia sessuale e riproduttiva».

Per questo, già prima dell’approvazione del testo in commissione, la Federazione delle Associazioni Familiari Cattoliche aveva raccolto 50mila firme per dichiarare la propria opposizione, mentre l’associazione Provita sta portando avanti una campagna senza esclusione di colpi contro la supposta “educazione gender” nelle scuole, con tanto di raccolta firme, seminari di approfondimento e persino uno spot, imbarazzante e diventato virale.

Nel dicembre 2013, in opposizione alla “Risoluzione Estrela”, la campagna di mobilitazione “One of us” per il riconoscimento giuridico dell’embrione raccolse due milioni di firme in pochi giorni e riuscì a far approvare dal Parlamento europeo un testo alternativo, che provocò contestazioni e mobilitazioni nei diversi paesi. Oggi i movimenti antiabortisti sono di nuovo in allarme e premono affinché gli europarlamentari italiani si oppongano al “punto 14”, che consentirebbe invece alle donne che intendono interrompere la gravidanza di invocare la normativa europea per vedere tutelato il loro diritto. Un diritto che in Italia, come si sa, è minacciato quotidianamente dalla difficoltà di trovare strutture ospedalieri e medici non obiettori che applichino la legge 194 del ’78 sull’interruzione volontaria di gravidanza.

Non è una semplice valutazione di parte: che l’Italia vìoli il diritto delle donne di interrompere la gravidanza, a causa dell’elevato e crescente numero di medici obiettori di coscienza, lo stabilisce una sentenza del Comitato Europeo dei Diritti Sociali del Consiglio d’Europa, che l’8 marzo 2014 ha accolto un ricorso collettivo contro l’Italia portato avanti da un’associazione non governativa, l’International Planned Parenthood Federation European Network, che dagli anni 50 si batte in 172 paesi per potenziare l’accesso ai programmi di salute delle fasce più vulnerabili.

La legge 194 infatti prevede che, indipendentemente dalla dichiarazione di obiezione di coscienza dei medici, ogni singolo ospedale debba poter garantire sempre il diritto di scelta delle donne. Una battaglia iniziata quasi due anni prima (il Reclamo collettivo n. 87 del 2012 è stato depositato l’8 agosto 2012) e che ha visto la partecipazione di diverse associazioni tra cui la Laiga, Libera associazione di ginecologi per l’applicazione della 194,/78 da sempre impegnata su questo fronte.

Del voto di oggi al Parlamento europeo e della delicata situazione italiana abbiamo parlato proprio con la presidente di Laiga, la dottoressa Silvana Agatone.

Che cosa possiamo aspettarci dalla votazione di oggi?

«Come Laiga siamo molto preoccupati dell’esito della votazione, di cui si è parlato troppo poco. Nel novembre scorso abbiamo lanciato l’idea di formare una confederazione di associazioni che si occupano della salute della donna, abbiamo organizzato due conferenze stampa e scritto ai parlamentari pd e cinquestelle perché sostengano la relazione di Tarabella, che è molto ampia e ben fatta. Siamo preoccupati perché l’obiezione di coscienza è in aumento e intralcia di fatto l’applicazione della 194, fatto problematico per le interruzione di gravidanza entro i primi tre mesi ma che diventa un dramma quando si tratta di aborti terapeutici, quindi dopo la dodicesima settimana di gravidanza. Infatti, se entro i primi tre mesi l’interruzione è programmabile e quindi anche in caso di ospedali con medici obiettori si può prendere un operatore esterno a gettone, una donna cui è stata diagnosticata una malformazione del feto e che si presenta al quarto o quinto mese deve farsi ricoverare per l’induzione del parto: ci vogliono ginecologi strutturati che siano all’interno del reparto e che possano seguirla. Per questa ragione sono già saltati diversi interventi e nonostante si tratti di un’emergenza, il ministero della Salute non si mostra sensibile. In Lazio, tanto per dare un’idea, soltanto in due provincie si praticano questi interventi dopo il terzo mese. Quindi cosa succede? Fanno la diagnosi prenatale e poi alla donna dicono che non possono aiutarla, costringendola a cercare un ospedale disponibile a fare l’intervento. Capita che le pazienti migrino di regione in regione, perdendo tempo prezioso».

Il numero dei medici obiettori è aumentato moltissimo negli ultimi anni. Come lo spiega?

«È più comodo fare obiezione di coscienza perché così il tempo in ospedale lo si passa per cose che portano più “clientela”; una donna che abortisce difficilmente torna dallo stesso medico perché le ricorda un evento che la fa sentire in colpa. Ci sono ospedali che non hanno mai attuato la 194; l’igv è percepita come un “lavoro sporco”. Molti obiettori però, pur non praticando aborti, raccomandano le loro pazienti a chi li fa, senza nemmeno far riflettere la donna sul passo che sta per compiere: un dato che fa pensare che più che obiettori di coscienza siano obiettori di comodo. Bisogna aggiungere che i non obiettori stanno ancora diminuendo; a Iesi, quando l’ultimo è andato in pensione è stato chiuso il servizio, poi riaperto soltanto per la pressione delle donne. Lo stesso è successo al Policlinico Umberto I di Roma. Bisogna protestare per riuscire a mantenere attivo un servizio che è previsto dalla legge. Inoltre, in molte facoltà di specializzazione di ginecologia i medici sono tutti obiettori, con la conseguenza che le giovani leve non imparano nulla».

C’è una pressione politica?

«E’ un dato di fatto che i medici obiettori stanno occupando i primariati degli ospedali pubblici, come sta capitando al San Camillo a Roma, dove si trattano i casi più gravi e le patologie più severe. Quando arrivano in posti di potere devono difendere la loro posizione ed è difficile immaginare che si mantengano neutrali su una questione così delicata come l’interruzione di gravidanza».

Il ministero della Salute come reagisce a questa situazione?

«Ogni anno il ministro fa una relazione in Parlamento su come sta andando l’igv in Italia: nell’ultima diceva che, certo, stanno diminuendo i medici non obiettori però diminuiscono contemporaneamente anche gli aborti, quindi tutto va bene. Ma la realtà è che i loro dati non disegnano il territorio: finché non si verifica la reale richiesta di interruzione di gravidanza e in che misura è soddisfatta non sapremo mai qual è la situazione reale. Senza contare che non sappiamo nulla del numero degli aborti clandestini».

In Italia c’è di nuovo un aumento dell’aborto clandestino?

«Su questo tema le uniche ricerche ufficiali sono fatte su base statistica e non partono dal reale.

I dati che noi abbiamo acquisito ci dicono che il problema esiste ed è grave: soprattutto, di nuovo, in caso di aborto terapeutico. Rischiano come sempre le frange più deboli, che non possono andare all’estero ad abortire e finiscono per crescere persone con gravi difficoltà, in un paese senza strutture in grado di sostenere le famiglie con bambini disabili». 

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