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La strada oltre il muro

 Una settimana (dal 22 febbraio al 1 marzo) di incontri con le scuole, le istituzioni, la cittadinanza, a Roma e in giro per l’Italia, con una tappa in Svizzera: la XVII edizione del progetto Semi di pace, organizzato da Confronti, con l’adesione, tra gli altri, di Riforma, si è concluso da poco e ha visto la partecipazione di sei operatori di pace israeliani e palestinesi: due appartenenti all’associazione Interfaith Encounter Association, che lavora con incontri interconfessionali; due di Parents’ Circle Families Forum, associazione composta da israeliani e palestinesi che hanno perso un familiare prossimo durante i conflitti; un membro di Holy Land Trust, l’associazione palestinese che lavora sulle pratiche della non-violenza, e una da Road to recovery, organizzazione israeliana che pianifica un servizio volontario di mezzi di trasporto per portare i malati palestinesi negli ospedali israeliani. Qui di seguito l’intervista a Marwan Alfararja di Holy Land Trust, e Amalia Wiesel di Road to recovery.

Marwan

Cosa significa per te la nonviolenza?

«La nonviolenza non è solo una tattica contro l’occupazione, è una strategia che il popolo palestinese deve fare propria per ripensare i rapporti anche all’interno della comunità».

Dove svolgi il tuo lavoro?

«Il mio lavoro consiste nella supervisione di attività incentrate sulla resistenza nonviolenta in 19 villaggi e 3 città dell’area di Betlemme. Sono sempre a contatto con le persone, ed è per questo che conosco bene le loro esigenze e tocco con mano lo stato in cui vivono. E’ importante che l’azione nonviolenta entri sempre più nel modo di agire del popolo palestinese. Noi lavoriamo per questo obiettivo».

Cosa fate oltre la formazione?

«Ogni settimana organizziamo una manifestazione contro la costruzione di nuovi tratti del muro che divide Israele dai Territori palestinesi. Lottare contro la costruzione di altro muro è importante perché in nome della sicurezza di Israele il muro si insinua nelle terre dei palestinesi, divide i campi, separa le famiglie, diventa una vera e propria barriera che contribuisce in maniera pesante alla creazione di nuova ingiustizia e anche umiliazione».

Che cosa oggi è ancora più necessario?

«Il supporto dall’esterno, ne sono convinto, è fondamentale per una risoluzione del conflitto. Ma la riconciliazione deve essere preparata adeguatamente anche dal basso; è possibile solo se diverrà una scelta presa con responsabilità e convinzione dalle due parti in causa. Noi ci crediamo».

Amalia Wiesel

Cosa fa Road to Recovery?

«Road to Recovery fornisce un servizio di trasporto verso gli ospedali israeliani per i palestinesi di Cisgiordania e Gaza. In quelle zone le persone hanno spesso bisogno di cure mediche alle quali non si può far fronte nelle strutture ospedaliere locali. Ogni giorno organizziamo con l’aiuto di decine di volontari le macchine per andare a prendere le persone che ne hanno bisogno; prepariamo il giro da fare e affrontiamo i passaggi dai check point».

Tu ti occupi della zona di Gaza. Com’è la situazione?

«La situazione è davvero tragica, specialmente in seguito alle distruzioni che hanno dilaniato la zona dopo l’ultima guerra avvenuta la scorsa estate. L’indigenza è davvero incredibile, intere famiglie vivono in una sola camera in cui manca tutto: acqua, gas, elettricità. Lo stesso si può dire per gli ospedali, che non hanno le condizioni minime per lavorare».

Cosa riuscite a fare?

«Col nostro lavoro rispondiamo alla necessità di trasportare le persone che hanno bisogno di cure mediche particolari in ospedali israeliani. Ci tengo però a precisare che Israele accoglie questi malati non per motivi umanitari. E’ l’autorità palestinese, infatti, a pagare per ogni degente che riceva cure negli ospedali israeliani: perfino a Gaza, dove è Hamas a comandare».

Passare i check point è impresa ardua?

«Oltre a passare per i controlli israeliani e a quelli dell’autorità palestinese, Hamas fa un ulteriore controllo sulle motivazioni e sulle reali esigenze della persona che richiede le cure. Capita che dopo tutti i controlli, per ragioni spesso incomprensibili, il permesso venga comunque negato, e non sia possibile quindi varcare il check point e raggiungere l’ospedale. La situazione si complica ancora di più per i bambini. Non sono autorizzati a spostarsi in Israele senza che vengano accompagnati da uno dei genitori o da un familiare. Ma questo implica il fare altri controlli e far perdere tempo prezioso al malato. In nome della sicurezza, a causa del conflitto, i più deboli ne fanno le spese».

Cosa c’è di fondamentale nel lavoro di Road to Recovery?

«Quello che facciamo a Road to Recovery è un lavoro importantissimo, non solo per i malati, bensì per noi israeliani, che ci troviamo in macchina con i palestinesi e in quell’occasione, siamo nella condizione di poter incontrare queste persone e riconoscerle come simili a noi, e non come un avversari o nemici. Ma come uomini e donne con le proprie debolezze, ma anche le speranze e le aspirazioni. Per me questo significa rivoluzionare il modo di pensare gli altri, nella fattispecie i palestinesi, e mi dà ancora più forza nel voler perseguire nella strada della riconciliazione».

Ulteriori informazioni sul prossimo numero di Confronti (aprile).

Foto via Pixabay | Licenza CC0 Public Domain