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Cambiare il lavoro per fermare le disuguaglianze

L’avvicinarsi dell’8 marzo è sempre occasione di bilanci. A che punto sono le diseguaglianze tra donne e uomini in termini di opportunità di lavoro, di reddito, di partecipazione alla vita pubblica, di divisione del lavoro domestico, di riconoscimento dei diritti fondamentali? Se allarghiamo lo sguardo al mondo e soprattutto a quei paesi le cui vicende ci stanno diventando sempre più familiari a causa dei conflitti e dei grandi movimenti di popolazione che essi portano con sé non possiamo che constatare che gli obiettivi di uguaglianza sono assai lontani dall’essere raggiunti e addirittura si stanno allontanando. Se guardiamo all’Europa invece continuiamo a registrare segni di miglioramento. Troppo piccoli, però, come fa osservare anche l’ultimo Rapporto della Commissione Europea sull’uguaglianza tra donne e uomini. Agli attuali tassi di crescita ci vorranno trent’anni per raggiungere quel tasso di occupazione femminile del 75% che le politiche europee auspicano e addirittura settanta anni per raggiungere la parità retributiva. Oltre vent’anni serviranno perché la rappresentanza femminile nei parlamenti europei raggiunga il 40% e altrettanti per avere una analoga rappresentanza di donne nel consigli di amministrazione delle grandi aziende. Tra quarant’anni, infine, si potrà sperare che la divisione del lavoro domestico abbia raggiunto la parità. Queste sono le previsioni se guardiamo alle medie europee. Se osserviamo poi la situazione dell’Italia che si colloca sempre agli ultimi posti nella graduatoria dei paesi europei, i tempi diventano biblici. Più di metà delle donne italiane non lavora. Le diseguaglianze di retribuzione tra donne e uomini sono meno accentuate della media europea ma lo sono di più quelle dei redditi da pensione. La percentuale di donne povere che guadagnano meno del 60% del reddito mediano è tra le più alte d’Europa. Quanti 8 marzo dovranno passare perché le donne italiane si vedano riconosciute i diritti che loro riconosce la Costituzione?

La crisi di questi anni, contrariamente a quanto spesso si è sostenuto, non ha fatto aumentare le diseguaglianze. Al contrario. Il fatto che le quote più importanti di occupazione siano andate perdute nell’industria, dove la presenza femminile è minoritaria nella maggior parte dei settori, ha risparmiato in parte l’occupazione femminile. Ma la crisi, e soprattutto le politiche di contrasto della crisi volute dall’Europa, hanno allontanato la speranza di veder migliorare la situazione perché le politiche di welfare che sono necessarie per rendere possibile il lavoro delle donne (servizi per bambini, anziani, malati e disabili), già avare in passato, sono ora ridotte ai minimi termini. Meno servizi per le famiglie significherà meno possibilità per le donne di lavorare fuori casa e meno posti di lavoro da offrire alle donne. Questo è quanto ogni anno ci ripetiamo. Questo è ciò che impedisce alle donne italiane di raggiungere i pur modesti traguardi raggiunti dalle altre donne europee.

Ma la crisi di questi anni suggerisce anche altre riflessioni che inducono a porre in maniera più radicale il problema del lavoro per donne e uomini per gli anni a venire. La grave contrazione della domanda di lavoro che è all’origine della disoccupazione che affligge tutti gli strati della popolazione non è solo la conseguenza degli sconvolgimenti finanziari di questi anni e della mancanza di politiche espansive. Si tratta di una tendenza storica. Ne sono all’origine le tecnologie che inesorabilmente cancellano posti di lavoro manuale e non manuale. Ne è all’origine il profondo cambiamento del ruolo dello Stato che, sull’onda delle politiche liberiste e sotto la pressione della crisi, si ritrae dall’esercizio di funzioni di welfare e dal ruolo di datore di lavoro di ultima istanza. Dipende dai cambiamenti geopolitici che hanno spostato i luoghi della produzione e i centri di comando dell’economia internazionale. Le tendenze spontanee distruggono lavoro specializzato e lavoro impiegatizio a favore di un limitato numero di occupazioni ad alta qualificazione e di una miriade di cattivi lavori precari, non qualificati, a basso reddito.

Se anche in Italia si riuscisse almeno a fare quello che hanno fatto altri paesi, e cioè a far crescere in maniera significativa il terziario di servizio alle imprese e alle persone, non per questo il problema sarebbe risolto.

E’ il lavoro che deve cambiare perché ce ne sia per tutti, donne e uomini, qualificati e meno qualificati. Ripensando ai tempi di lavoro, al rapporto tra lavoro dipendente e lavoro autonomo, al rapporto tra lavoro per il mercato e lavoro per sé, per la famiglie e per la comunità, alla distribuzione del reddito tra gruppi e classi e tra reddito speso per i consumi privati e speso per la collettività. Un radicale ripensamento di cui le donne possono diventare protagoniste, abbandonando la sterile rincorsa di un modello di lavoro e di società che non funziona più neppure per gli uomini.

Foto “Jean-François Millet (II) 002” by Jean-François Millet – The Yorck Project: 10.000 Meisterwerke der Malerei. DVD-ROM, 2002. ISBN 3936122202. Distributed by DIRECTMEDIA Publishing GmbH.. Licensed under Public Domain via Wikimedia Commons.