L’ennesimo “mai più”

Più di trecento persone sono morte al largo di Lampedusa. Un triste passo indietro nel tempo, fino all’ottobre del 2013, che tante volte abbiamo utilizzato come limite, come confine di una tragedia che non si sarebbe più ripetuta. Eppure, nonostante i cambiamenti nella gestione dei confini, e le responsabilità ridistribuite nel salvataggio in mare, la notte tra l’8 e il 9 febbraio tre gommoni con a bordo centinaia di persone sono naufragati, e uno è stato soccorso dalla marina militare italiana: su quest’ultimo sono state trovate morte per ipotermia 29 persone. L’Unhcr ha raccolto delle testimonianze tra i superstiti, circa un centinaio, dalle quali sembra che i migranti in viaggio fossero più di 400. Ora gli occhi e le dita sono puntati verso l’operazione Triton, di Frontex, che non garantisce il salvataggio dei dispersi in mare: «avevamo avvertito che se non ci fosse stata un’operazione di salvataggio fino nelle acque internazionali, il rischio era quello di avere più morti – dice Carlotta Sami, portavoce per il Sud Europa dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati – questa ne è la dimostrazione». Nel frattempo gli abitanti dell’isola sono all’oscuro dei fatti che accadono sui propri moli, l’informazione interna è scarsa, e si apprendono le notizie solo dai media esterni: il coinvolgimento e la partecipazione continua ad essere molto difficoltosa: «oggi pomeriggio alle 15,30 organizzeremo una manifestazione, che sta nascendo spontanea dai cittadini e dalle cittadine di Lampedusa e Linosa – dice Marta Bernardini, dell’osservatorio Mediterranean Hope –, perché in questi giorni abbiamo visto tante immagini, sono state dette molte parole, ma ancora una volta i cittadini sono stati tagliati fuori da quello che accade».

Carlotta Sami, quali sono gli ultimi aggiornamenti?

«I migranti e i rifugiati che sono arrivati sono ospitati nel centro di accoglienza di Lampedusa. Mi lasci dire che la cronaca ha superato le situazioni da troppo tempo. Siamo di nuovo qui a Lampedusa dopo che a ottobre 2013 tutti dissero “mai più”. Ora è scaduto il tempo».

Avete raccolto le testimonianze delle persone attraverso le quali avete scoperto che le vittime erano molte di più.

«Sì, i superstiti riportano di essere stati costretti da trafficanti armati a salire su questi gommoni fatiscenti, il sabato sera, e di essere alla partenza circa 400 persone. Non avevano nulla, non un giubbotto di salvataggio, non avevano cibo né acqua. I gommoni avevano motori da 35 cavalli, lanciati verso il nulla e hanno iniziato da subito a imbarcare acqua. La prima chiamata alla Guardia Costiera è arrivata domenica, all’ora di pranzo, e ci sono volute più di cinque ore per raggiungere uno di questi gommoni. Avevamo avvertito che se non ci fosse stata un’operazione di salvataggio che andasse fino nelle acque internazionali, il rischio era quello di avere più morti. Questa ne è la dimostrazione. L’operazione Triton è un’operazione di pattugliamento delle frontiere marittime, non di ricerca e soccorso. E’ stato detto fin da subito dagli stessi responsabili. Comunque, anche se si vogliono giustamente gestire le frontiere dell’Unione Europea, non si possono pensare di gestire abbandonando centinaia di vite in mare al loro destino».

Renzi dice che il problema è la Libia, cosa ne pensa?

«La Libia è in una situazione di grande caos che favorisce il proliferare le reti di trafficanti, ma il problema non è solo la Libia. Il problema sono i conflitti che premono su diverse regioni, i rifugiati arrivano anche dalla Turchia, non solo dalla Libia. La situazione è complessa, occorre mettere in piedi una strategia ben orchestrata in cui ogni membro dell’Unione Europea si prenda le proprie responsabilità. Crediamo che non sia responsabilità di un paese solo, ma neanche di quattro o cinque: i paesi sono 28, occorre che la strategia sia adottata da tutti».

Molti osservatori invocano i corridoi umanitari, sono una soluzione?

«Quando parliamo di corridoi umanitari bisogna capirsi: per noi è possibile prendere in esame le richieste e gestirle, ma non deve essere inteso come una possibilità di bloccare i rifugiati dalle loro richieste di asilo e dal loro giusto diritto di essere accolti in Europa. Occorre che a monte vi sia un progetto da parte degli stati membri di accogliere, ciascuno, una determinata parte di rifugiati. Al momento questo non esiste».

Il discorso sul Regolamento Dublino III?

«Sulla sua interpretazione. Anche il regolamento di Dublino prevede alcune norme che faciliterebbero ad esempio i ricongiungimenti familiari, di snellire le procedure e rendere la vita più semplice a migliaia di richiedenti asilo. Occorre puntare al riconoscimento delle richieste in diversi paesi, che sia data la possibilità di aumentare le quote per il ricollocamento dei rifugiati per i paesi in transito».

Come vede la situazione sull’isola?

«Abbiamo chiesto fortemente di riaprire il centro di accoglienza, che ora è aperto e funzionante: è importante avere una base d’appoggio dove poter assistere le persone che vengono recuperate in mare e fornire le prime cure. Ora la situazione è molto tranquilla, il centro sta fornendo assistenza agli ospiti, le agenzie umanitarie sono presenti e gli ospiti verranno trasferiti domani. Occorre agire perché non arrivino altri cadaveri su Lampedusa».

Gli abitanti dell’isola, però, spesso sono all’oscuro dei fatti che accadono sui propri moli, l’informazione interna è scarsa, e si apprendono le notizie solo dai media esterni: il coinvolgimento e la partecipazione continua ad essere molto difficoltosa: Marta Bernardini, dell’osservatorio Mediterranean Hope ci ha raccontato la mobilitazione: «Oggi pomeriggio alle 15,30 organizzeremo una manifestazione, che sta nascendo spontanea dai cittadini e dalle cittadine di Lampedusa e Linosa, perché in questi giorni abbiamo visto tante immagini, sono state dette molte parole, ma ancora una volta i residenti sono stati tagliati fuori da quello che accade. Sembra che quello che succede sia di proprietà dei media, della stampa, e di chi sta fuori da quest’isola, come se chi sta qui non avesse la possibilità di piangere i morti e di accogliere le persone sopravvissute. La comunità partirà da una piazza e raggiungerà il centro di accoglienza, portando “un fiore per i morti e un abbraccio per i vivi”, ovvero commemorando le vittime ma allo stesso tempo offrendo vicinanza alle persone accolte nel centro, chiuse dentro per ora. Vogliamo dimostrare che a Lampedusa la popolazione è interessata a cosa succede loro e li riconosce come persone».

Venite a conoscenza delle notizie dai media nazionali?

«Le informazioni sull’isola arrivano attraverso i mezzi di comunicazione esterni. Le immagini dei carri funebri che avrete visto sul molo, non sono state viste da nessuno di Lampedusa, che forse avrebbe voluto portare la propria solidarietà. Non era un evento a conoscenza dei cittadini. La manifestazione è per riappropriarsi dello spazio pubblico, e anche di poter offrire un sorriso a chi arriva su quest’isola. Siamo qui e vogliamo incontrare le persone che arrivano. L’isola è anche altro oltre a quello che viene raccontato da chi guarda da fuori».

Copertina: “Tunisia – Sicily – South Italy” by NASA, cropped by DrFO.Jr.TnNASA website. Licensed under Public Domain via Wikimedia Commons.