Condividere il cibo è segno dell’amore di Dio

Non si va in gita in Inghilterra per godere del bel tempo, così come non si va in vacanza in Svizzera per rosolarsi su una spiaggia. E così, di luogo comune in luogo comune, non si va negli Stati Uniti per avere incontri memorabili con il cibo. È bello qualche volta essere smentiti e così proprio negli Stati Uniti, più precisamente in Illinois, ho avuto tre esperienze particolari proprio legate a riflessioni (e azioni) legate a questo aspetto così importante della vita.

Prima esperienza (teorica): incontro dei pastori del Presbiterio di Chicago. Il professor Timothy Eberhart, professore di teologia ed ecologia in nella facoltà di Teologia Metodista dell’Ohio, incontra un numero non proprio elevatissimo di pastore e pastori. Teologia ed ecologia? Proprio così; con la sua specializzazione ha guidato i partecipanti a scoprire il mondo del cibo e della sua produzione da un punto di vista teologico. Negli Usa praticamente tutto il processo di produzione, trasformazione, distribuzione e vendita del cibo è nelle mani di pochissime multinazionali, molti più di quanto non lo sia da noi. Il cibo è sempre più solo e solamente strumento di sopravvivenza personale e si rischia di perdere il senso della comunione che nasce dal pasto condiviso. Buona parte dell’incontro è stato dedicato al racconto di iniziative sorte in comunità che si dedicano localmente alla produzione di cibo (qui lo spazio, anche nelle grandi città, per installare un orticello non manca mai). È un atto potente di azione diaconale, ma soprattutto di predicazione: il cibo prodotto, cucinato e consumato in condivisione è segno dell’amore «inclusivo, conviviale, incarnato, reciproco e creativo», testimoniato da Dio in Gesù Cristo.

Seconda esperienza (pratica): volontariato al Pads Lake County presso la First Presbyterian Church di Libertyville. Il Pads è un’organizzazione della contea che si occupa di fornire assistenza e riparo ai senzatetto nelle fredde notti d’inverno (è normale arrivare a -20°, in questo periodo). Le chiese ospitano a turno un gruppo di senzatetto, mediamente per una notte alla settimana. E allora servono volontari per preparare i letti, per cucinare il cibo e organizzare l’accoglienza. Il cibo è poi condiviso da volontari e ospiti; si parla poco, c’è poca voglia di raccontare la propria storia (ad uno sconosciuto come il sottoscritto, poi…), ma un gran senso di dignità nelle persone o nelle famiglie ospitate, come si avverte un gran rispetto da parte da parte degli ospitanti. Sono tornato nei locali della chiesa la mattina dopo: non c’era nessun segno del loro passaggio, come silenziosamente sono arrivati, così silenziosamente sono tornati alle loro vite, al loro lavoro (molti degli ospiti lavorano, ma ricevono un salario troppo basso per poter affittare una casa). Tuttavia, mi è stato detto, alcuni di loro col tempo cominciano a cercare qualcosa di più che il solo riparo notturno e settimana dopo settimana iniziano con i volontari percorsi di fede; apprezzano il cibo, ma sanno di essere in una chiesa e cercano (e spesso trovano) anche un sostegno più profondo che li aiuta nella vita. Per chi volesse saperne di più: http://www.padslakecounty.org/.

Terza esperienza (pratica): Feed my Starving Children, Libertyville. Questa organizzazione cristiana, ma non legata ad una particolare chiesa, si incarica di preparare pasti disidratati dieteticamente bilanciati che vengono poi inviati in paesi a grave rischio alimentare. Ogni giorno accoglie volontari per confezionare i pasti: bisogna misurare le giuste quantità di riso, soia e vitamine, sigillare accuratamente i pacchi, inscatolarli e prepararli alla spedizione. E così ho passato un’oretta, molto piacevole in quanto si lavorava insieme per uno scopo ben preciso, a spingere carrelli carichi di riso e soia da distribuire fra i vari tavoli dove si preparavano le razioni, tavoli gioiosamente in competizione fra di loro per vedere chi era l’inscatolatore più efficace. Dopo il momento di volontariato, perfettamente introdotto dai responsabili dell’organizzazione, con tanto di filmati che spiegano come e dove agiscono, ho avuto occasioni per discutere dell’esperienza con i miei ospiti: è apparso chiaro a tutti che probabilmente l’associazione potrebbe lavorare in modo più efficiente ed economico comprando una macchina per gestire automaticamente l’impacchettamento; ma così facendo si perderebbe la finalità didattica del processo: non si tratta solo di inviare cibo a chi ha fame, ma anche di far comprendere il valore di questa risorsa a chi ne ha in abbondanza e rischia di non comprendere più la solitudine e l’angoscia di chi ne è privo. Per chi volesse saperne di più: http://www.fmsc.org/.

 

Foto: cold, homeless and hungry, di Rebecca Gaines, con licenza Creative commons