Ricostruire legami di fiducia

Da alcuni anni il Centro diaconale «La Noce» di Palermo è impegnato in attività di accompagnamento e sostegno rivolte a persone inserite nel circuito penale, che si collocano all’interno del paradigma della giustizia riparativa. Tra i diversi «servizi devianza» vi è quello che offre a soggetti in esecuzione penale esterna dei “percorsi di riparazione simbolica del danno e/o volontariato”. Ne parliamo con la psicologa e psicoterapeuta Anna Ponente, direttrice del Centro diaconale «La Noce».

I nostri servizi devianza sono vari: c’è il tutoraggio per le famiglie con figli dentro il circuito penale o per giovani coppie, con uno o entrambi i partner dentro il circuito penale; la riparazione simbolica del danno attraverso un’attività di volontariato; la mediazione di conflitti; il servizio sportello vittime. Tutte queste attività condividono l’approccio della giustizia riparativa, che intende ogni reato come una frattura relazionale che ha bisogno di essere ricucita. Questa frattura può essere tra reo e vittima, e il concetto della vittima si può estendere all’intera società, e la riparazione del danno può essere diretta o simbolica.

In cosa consiste il servizio di riparazione simbolica del danno?

Grazie ai protocolli di intesa stipulati con l’Ufficio di esecuzione penale esterna (Uepe) e l’Ufficio del servizio sociale minorile (Ussm) del Ministero della Giustizia, accogliamo sia minorenni sia giovani adulti che svolgono un’attività di volontariato che ha la funzione di riparare simbolicamente il danno arrecato. Per ogni soggetto in affidamento, viene concordato un progetto con l’assistente sociale e, in base all’inclinazione e alla posizione giuridica del soggetto, si individuano le attività di volontariato da proporre. In questo modo proviamo a ricostruire il legame di fiducia che queste persone hanno perso nel rapporto con l’altro e più in generale con la società. Attraverso le relazioni quotidiane con il personale del Centro, del settore scolastico e sociale, i detenuti hanno la possibilità di instaurare delle relazioni sociali improntate a modelli di vita quotidiana ben diversi da quelli che sperimentano fuori dal Centro diaconale.

Qual è il bilancio di quest’attività?

Finora le esperienze fatte sono state buone: hanno usufruito del servizio circa una quarantina di persone. Mediamente il Centro diaconale ne accoglie tre, quattro alla volta e la loro età varia dai 25 ai 45 anni. Le difficoltà che incontriamo sono quelle che i servizi diretti alle persone di solito affrontano. In particolare bisogna avere cura e prestare molta attenzione all’ascolto di questi soggetti che sono portatori di un altro modello di vita, di un altro rapporto con la legalità. Può accadere che alcuni assumano un atteggiamento di chiusura e di non comprensione del lavoro che si sta svolgendo, ma cerchiamo di superare gli ostacoli con il dialogo. Quando ascoltiamo le storie di questi giovani adulti, spesso costatiamo che fin dall’infanzia nessuno ha dato loro fiducia. Il venir meno di questo patto di fiducia li porta ad una situazione di rottura del legame con il mondo esterno. Al Centro diaconale proviamo a ricostruire questo legame di fiducia con l’altro, promuovendo il riequilibrio dei rapporti all’interno della società che, si spera, possa poi contribuire ad un cambiamento sociale a lungo termine.

Ci sono nuovi progetti in cantiere?

A breve inaugureremo presso il Centro diaconale una casa di accoglienza temporanea che si chiamerà “Vale la Pena”. Il progetto, pensato insieme all’Ufficio di esecuzione penale esterna (Uepe), e finanziato dalla Federazione delle chiese evangeliche svizzere (HEKS) e da una quota dell’8 per mille valdese, prevede l’apertura di una casa che possa accogliere temporaneamente cinque persone che sono in regime di affidamento in prova al servizio sociale in detenzione domiciliare. La casa intende offrire una risposta concreta all’emergenza del sopraffollamento delle carceri, attivando una rete di servizi che vadano incontro ai diversi bisogni della persona: la ricerca di un’abitazione, di un lavoro, la necessità di integrarsi nuovamente nel tessuto sociale, e di riprendere certi legami intrafamiliari che si sono spezzati. Avendo a cuore l’aspetto terapeutico, abbiamo pensato di attivare dei laboratori sulla genitorialità, offrendo un sostegno sia pedagogico sia terapeutico alle famiglie coinvolte. La nostra idea è di sostenere la famiglia tutta, rispondendo così alla mission originaria del Centro diaconale che era quella di occuparsi delle famiglie e dei bambini. Aprire nel deprivato quartiere La Noce di Palermo una casa di accoglienza per detenuti è veramente una sfida importante».

 

Coopertina: Anna Ponente nel suo ufficio (Foto Istituto La Noce-Palermo)