Scontri tra polizia e manifestanti il 2 febbraio a Il Cairo

Guerra allo Stato

Il 24 gennaio, vigilia del quarto anniversario della rivoluzione egiziana, una giovane attivista dell’Alleanza Nazionale Socialista è stata uccisa a sangue freddo dalla polizia in piazza Talaat Harb, nel cuore del Cairo. Shaymaa el Sabbagh e i suoi compagni si apprestavano a portare dei fiori nella vicina piazza Tahrir, per ricordare le vittime della rivoluzione del 2011. La delegazione, del tutto pacifica, gridava «pane, libertà, giustizia sociale», astenendosi dal pronunciare slogan contro il presidente Abdel Fattah el Sisi. Questa prudenza non è bastata. Le forze di sicurezza hanno attaccato il gruppetto, violando persino la feroce legge anti-proteste, in vigore dal 2013, che ha strozzato il movimento di piazza. Secondo i testimoni oculari, un poliziotto ha freddato Shaymaa a pallettoni.

L’indignazione pubblica è stata enorme, l’angoscia e la rabbia profonde. L’assassinio di Shaymaa ricorda quello del giovane Khaled Said ad Alessandria, il 6 giugno 2010, in seguito al quale la piazza aveva cominciato a muoversi con piccole dimostrazioni e catene del silenzio, sfociate poi nella grande rivolta del gennaio 2011. Anche dopo la morte di Shaymaa c’erano le premesse per una ripresa della mobilitazione popolare laica, c’era il fremito giusto. Alla fine, però, questa mobilitazione non c’è stata.

La ragione del trattenersi della piazza va cercata in ciò che stava succedendo nel Paese proprio in quei giorni, cioè l’acuirsi della violenza islamista. Non solo continuavano a succedersi, qua e là per il Paese, bombe e attentati, diventati realtà quotidiana dopo la destituzione del presidente Mohammed Morsi (3 luglio 2013), ma si è anche assistito a una vera e propria dichiarazione di guerra allo Stato egiziano. Predicatori e presentatori televisivi di canali satellitari esteri, sostenuti dalla Fratellanza Musulmana, e vari leader del gruppo islamista, attraverso giornali e web, hanno apertamente invitato a uccidere poliziotti e soldati in ogni luogo. Hanno chiamato al jihad, rispolverando la definizione che Hassan al Banna, fondatore dei Fratelli Musulmani, aveva dato di questa parola. Qualcuno è giunto a minacciare imprese, ambasciate e turisti stranieri. Un salto di qualità nella lotta dei pro-Morsi contro il regime di el Sisi.

Questi appelli al jihad sono stati diffusi lo stesso giorno in cui, in Sinai, un micidiale attacco ha colpito simultaneamente il quartier generale delle forze di sicurezza nella città di El Arish, un albergo e diversi checkpoint militari, uccidendo almeno ventisette persone e ferendone più di un centinaio, fra i quali anche civili. L’attacco è stato rivendicato dal gruppo Ansar Bayt al Maqdis, che recentemente ha giurato fedeltà allo Stato Islamico. El Sisi, rientrato d’urgenza dal summit dell’Unione Africana, ha annunciato che la guerra contro gli islamisti sarà lunga, poi ha ordinato il raggruppamento della seconda e terza armata, di stanza nel Sinai, sotto un comando unificato. Ha inoltre predisposto una riorganizzazione dell’esercito attorno al Canale di Suez.

Il Sinai in guerra a nord-est, le milizie islamiste in Libia che premono sul confine occidentale, gli atti di terrorismo quotidiani all’interno, e ora anche lo spudorato incitamento della Fratellanza Musulmana alla lotta armata contro lo Stato. Tutto questo definisce un quadro minaccioso per l’Egitto. Non stupisce che la piazza laica si trattenga in questa situazione. Attaccare lo Stato pare un’azione suicida, considerato il panorama attuale del Medio Oriente, perché l’esercito è visto come l’unica garanzia rimasta di unità territoriale.

L’escalation islamista è il segno di un nuovo bilanciarsi di forze nella regione, che mette l’Egitto in una posizione scomoda. La morte del re saudita Abdullah ha tolto un fedele alleato a el Sisi. Al contrario, l’ascesa al trono di Salman ibn Abdul Aziz ha posto in posizione di potere uno dei massimi fiancheggiatori (e finanziatori) dei gruppi jihadisti e islamisti nella regione, fra i quali i Fratelli Musulmani. Il Qatar di al Jazeera, brevemente riconciliatosi con l’Egitto sotto la pressione saudita, sta ora riallineandosi con i Fratelli Musulmani e il Dipartimento di Stato Americano ha ricevuto alcuni rappresentanti dell’ex parlamento egiziano islamista ricostituitosi in Turchia. Con l’appoggio (anche finanziario, probabilmente) del nuovo re saudita e la tacita legittimazione degli Stati Uniti, i Fratelli Musulmani si sentono più forti. Ciò può spiegare perché stanno alzando il tiro, senza più nascondersi dietro mistificazioni democratiche. Vogliono la caduta del regime egiziano. Anche la piazza laica vorrebbe la caduta del regime, ma non così, non per gli stessi obiettivi degli islamisti. E dunque, persone come Shaymaa, restano pizzicate fra due forme diverse, ma simbiotiche, di violenza e totalitarismo, fra i giochi di potere interni e le strategie geopolitiche mondiali, in attesa di trovare una tanto agognata via di uscita.

Foto: Scontri tra polizia e manifestanti il 2 febbraio a Il Cairo, di Jerry Jackson con licenza BY-SA 2.0, via Wikimedia Commons