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Nuove strategie e vecchi problemi nella “nuova frontiera” cinese

Sempre più spesso i giornali occidentali raccontano di operazioni di sicurezza messe in atto dal governo cinese in una regione che in molti considerano il “far west” del paese: parliamo dello Xinjiang, la regione più occidentale della Cina, un luogo il cui nome significa letteralmente “nuova frontiera”.

Si tratta di un’area con caratteristiche fisiche particolari, in gran parte desertica e che, a fronte di una superficie pari a poco meno di un quinto del “celeste impero”, ospita meno di un cinquantesimo della popolazione. Da questo territorio passa la Via della seta, una rete di strade che da almeno un millennio congiunge l’estremo oriente con l’Europa, e su questi percorsi si sono mischiate genti, culture e religioni. «In realtà – racconta Gabriele Battaglia, corrispondente di Radio Popolare da Pechino – a volte si sono mischiate e a volte scontrate». In effetti, stando alle narrazioni delle due parti, ci si trova di fronte a un vero e proprio scontro tra civiltà, che si manifesta almeno su quattro piani: etnico, linguistico, religioso ed economico.

Lo Xinjiang è infatti abitato storicamente dagli Uiguri, una popolazione che etnicamente fa parte dei gruppi dell’Asia centrale, parla una lingua del ceppo turcofono e pratica un islam moderato, simile a quello dei paesi confinanti, ma che negli anni ha visto una progressiva assimilazione etnica e culturale da parte della maggioranza Han, quella che consideriamo “cinese” a tutti gli effetti. Nel 1949, al momento dell’insediamento della Repubblica Popolare Cinese, gli Han in questa zona erano appena il 5%, mentre oggi, a distanza di 65 anni, sono il 46%.

Questa assimilazione, o colonizzazione se si guarda dal lato degli Uiguri, che chiamano lo Xinjiang “Turkestan Orientale”, è tutt’altro che lineare e indolore, e sembra diventare più conflittuale con il passare degli anni, anche a causa di un progressivo avvicinamento di alcuni gruppi indipendentisti allo jihadismo pakistano. «L’impressione a livello mediatico – racconta Battaglia – è che negli ultimi due anni ci sia stata un’escalation: nel solo 2014 sono oltre 200 i morti in scontri in Xinjiang, con il 2013 compreso dovrebbero essere circa 400, ma altri studi dicono che rispetto agli anni Novanta, quando c’erano comunque degli incidenti etnici ma se ne parlava molto di meno, quest’escalation non c’è. Di sicuro la cassa di risonanza mediatica è molto aumentata».

Il punto di svolta va ricercato probabilmente nei fatti dell’ottobre del 2013, quando un’automobile con a bordo una famiglia uigura di tre persone, si lanciò ad alta velocità in piazza Tienanmen a Pechino, uccidendo un paio di altre persone e andando a schiantarsi, uccidendosi, sotto il ritratto di Mao Tse Tung. Un atto dimostrativo che ha dato visibilità ad un’ampia serie di attentati rivolti contro i civili in Xinjiang e in altre regioni della Cina, come lo Yunnan o il Guandong, e che ha «portato il terrore fuori dallo Xinjiang», come affermato da fonti cinesi non ufficiali, mostrando un cambio di strategia da parte degli indipendentisti uiguri, che fino ad allora avevano portato attacchi soltanto a obiettivi militari e prevalentemente dentro i confini della loro regione di provenienza.

Ma questa trasformazione del conflitto è una reazione a un cambio di strategia del governo centrale cinese o il rapporto di causa ed effetto va ribaltato? «È difficile dirlo – ha dichiarato ancora Battaglia – perché le informazioni sono scarse e fortemente orientate».

In effetti, la Cina ha cambiato profondamente il proprio modo di agire nei confronti delle minoranze. Fino al 2013, cioè prima della nomina di Xi Jinping al vertice del paese, la strategia si basava su due punti cardine: il clientelismo, ovvero una rete fondata sui flussi di denaro e sull’investimento in infrastrutture, e sulle cosiddette “due S”, segregazione e sicurezza. La Cina è infatti uno dei paesi più etnicamente segregati del mondo: il 95% degli uiguri vive nello Xinjiang, e all’interno della stessa regione autonoma la maggior parte vive nella parte sudoccidentale, mentre nella parte nordorientale la maggioranza è ormai formata da cinesi Han.

Tuttavia, il cambio al vertice del partito e del governo ha portato con sé una nuova condotta, chiamata “delle tre J”, che tradotta in italiano si può riassumere in contatto interetnico, scambio e mescolanza, inteso come nuovo principio guida della politica etnica.

«Praticamente – racconta Gabriele Battaglia – si prendono gli uiguri e li dissemina nel resto della Cina. Questo può essere visto come una maggior integrazione e maggiori opportunità per i giovani, oppure come un tentativo di annacquare l’identità, il corpo degli Uiguri, nella Grande Cina».

Una strategia ambiziosa, che ha bisogno di grandi infrastrutture e che punta molto sullo sviluppo economico dello Xinjiang, che nelle intenzioni cinesi deve diventare il grande hub delle strade eurasiatiche e delle direttrici del mercato energetico.

Secondo la narrativa che va per la maggiore a livello di leadership cinese, nel momento in cui arriverà il benessere i problemi si risolveranno da sé. Ma è davvero così? «Se questa strategia – dice Battaglia – da un lato tende a risolvere alcune contraddizioni, come quelle dovute all’arretratezza, tende a crearne altre. Se è vero che probabilmente l’uiguro istruito, benestante, con la pancia piena, non presterà più ascolto ai sermoni di qualche imam radicalizzato, è anche vero che il nuovo ceto medio avrà anche richieste più complesse e più articolate».

La Cina ha deciso, sul piano politico, di correre un rischio importante, quello di riproporre nei confronti delle minoranze la stessa strategia che nelle grandi città ha permesso di tenere in piedi il sistema del partito unico e di non riproporre gli errori commessi in Tibet. I recenti fatti di Hong Kong mostrano però che il venire meno di uno dei capisaldi, quello dell’isolamento rispetto all’opinione pubblica mondiale, potrebbe mettere in crisi il sistema. Sarà così? Staremo a vedere.

Foto via Flickr