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L’anti-capro espiatorio

Credo sia cominciato con l’11 settembre, anche questo. All’epoca di diceva “Siamo tutti americani”. Tutti, per un paio di giorni. Poi partiva il valzer di “Non siamo tutti americani”, “Siamo tutti cileni” e via dicendo. I social network hanno amplificato la possibilità di dichiarare la propria identità con le vittime di un evento negativo. E in questi giorni abbiamo tutti potuto vedere la scritta “Je suis Charlie” sostituire le foto di profilo dei nostri amici su facebook, campeggiare sui selfie, addirittura essere commercializzata nelle custodie degli smartphone.

A “Je suis Charlie” si sono accodati “Je suis Juif” e anche “Io sono nigeriano”. E poi lo scontato “Je ne suis pas Charlie” per dissociarsi dalla linea editoriale della rivista o, più semplicemente, dalla massa.

Confesso di non aver mai capito, sin dall’11 settembre, l’urgenza di dichiarare in questa maniera il proprio sgomento, condanna, indignazione e solidarietà nei confronti delle vittime. Io sono io e basta. Loro sono loro e basta. Sull’onda dei “Je suis Charlie” e vari distinguo forse ho capito il disagio che provo nel non riuscire a dire “Sono americano, ebreo, nigeriano, Charlie”.

Io sono vivo, io non sono stato colpito personalmente, io posso continuare a vivere la mia vita come prima, fare quello che facevo prima, andar nei luoghi dove andavo prima, incontrare le persone che incontravo prima: le conseguenze dell’11 settembre sulla mia vita personale si limitano all’impossibilità di portarmi l’acqua da casa sull’aereo.

Le vittime dell’11 settembre, i duemila massacrati da Boko Haram, i siriani decapitati, gli ebrei uccisi nel supermercato di Parigi e i poveri Ahmed, Charb e Wolinski, invece, non sono più. Per le persone che li avevano a cuore la vita è cambiata radicalmente.

La domanda che mi pongo allora è: qual è il processo mentale e sociale che spinge la massa ad affermare la propria identità in base al fatto di sangue più recente o più efferato, quasi fosse possibile stilare una classifica delle ingiustizie umane?

Forse è qualcosa di simile al meccanismo del “capro espiatorio”. Il capro è chi si assume le colpe di qualcun altro, come nei riti espiatori in cui erano sacrificati degli animali. Gesù è il capro espiatorio per eccellenza, “condotto come una pecora al macello”, “l’agnello di Dio che toglie i peccati dal mondo”. Il capro espiatorio dice «io sono te» e paga per qualcun altro. Dicendo «Je suis Charlie», anche noi diciamo «io sono te», ma non pago per te, non vengo ucciso al posto tuo.

Come essere solidali con chi soffre, allora? Non limitandosi ad un clic, un hashtag o un cartello, ma cercando di lavorare per la pace e la giustizia tutti i giorni, cercando di riscoprire “chi siamo noi” — come ha scritto Francesco Sciotto in queste pagine —, prendendosi le proprie responsabilità per le cose che non vanno e cercando di cambiare il mondo a partire dal nostro piccolo.

Foto via Flickr