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Perseveranza

«Il tedio non è malattia di non aver nulla da fare, ma malattia più grave: sentire che non vale la pena far niente» (F. Pessoa). Credo che questa frase fotografi lo stato d’animo di molti nel nostro paese come l’ultimo rapporto del Censis dimostra con numeri e statistiche.

Dal rapporto emerge l’immagine di un Paese «a capitale inagito», da un punto di vista umano, sociale ed economico. Per l’incertezza che domina in vasti settori della società, si preferisce cioè essere attendisti, rinunciando quasi a ogni operazione che comporti dei rischi. I cittadini privilegiano il risparmio, quando possono, soprattutto per la paura che incide sul 60% della popolazione, che si possa scivolare, da un momento all’altro, in una condizione di povertà soprattutto per la perdita del lavoro.

Il 40% dei giovani manifesta una seria inquietudine a causa del fragile retroterra sociale. In questi anni è accresciuta la sfiducia nella scuola, come strumento di mobilità sociale e come opportunità per migliorare le proprie condizioni di vita, cosa che ha favorito, ben oltre la media europea, gli abbandoni scolastici. Michele Serra, in un saggio di qualche tempo fa, ha parlato della generazione degli Sdraiati, per rappresentare la fascia adolescenziale della popolazione, che nei propri comportamenti appare come non motivata a costruire un progetto di vita che guardi al futuro. Dunque per carenza di aspettative questo capitale resta bloccato, e incapace di mettere in moto meccanismi virtuosi.

Oggi è molto rara la virtù della perseveranza proprio perché essa è il laboratorio sperimentale della speranza e si nutre di futuro. Se ci pensiamo bene, però, senza perseveranza, per la quale guardiamo a tempi più lunghi ben oltre le difficoltà del presente, non può esserci neppure nessuna reale possibilità di riscatto. La perseveranza non è da confondersi con l’ostinazione con cui insistiamo su una cosa, solo per rimanere fedeli a noi stessi, anche quando i fatti dimostrano che abbiamo torto. Ma è tenacia e radicamento in ciò che è giusto, per questo impedisce che la nostra vita decada in accidia, in tristezza, in immobilismo.

La Bibbia conosce il termine perseveranza, in riferimento sia al pregare sia al servire sia al fare il bene. Nell’epistola ai Romani è scritto: Il Signore renderà (…) vita eterna a quelli che con perseveranza nel fare il bene cercano gloria, onore e immortalità. Ma l’immagine che mi pare più suggestiva è quella di Noè, che davanti a una società in cui tutti erano diventati corrotti e la terra era divenuta piena di violenza, avendo creduto alla Parola del Signore, si mise alacremente al lavoro per costruire l’arca. Possiamo immaginare quanta ilarità abbia accompagnato l’agire di Noè da parte dei suoi contemporanei che ritenevano quell’agire insensato.

La perseveranza è una virtù che ben si addice ai credenti, che perseguono e continuano a costruire la pace e la giustizia in un tempo in cui domina la prepotenza e la diffusa convinzione che non ci sia nulla da fare per cambiare questo stato di cose. La perseveranza però, ancor prima che virtù morale, è vocazione spirituale per tutte le chiese a rimanere fedeli alla verità dell’Evangelo, e a spendersi per esso anche e soprattutto nel tempo della crisi.

Siate perseveranti nel fare il bene, dunque! Sia questo l’invito e l’augurio per l’anno che ci sta davanti per chiunque voglia diventare o rimanere discepolo di Gesù.

(*) Salvatore Natoli, Perseveranza, Ed. Il Mulino, 2014 | Foto via