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Il giornalismo non è terrorismo

Domenica 11 gennaio 3,7 milioni di persone hanno manifestato, in Francia, in solidarietà con le vittime degli attentati di Parigi e contro il terrorismo. Cortei “senza precedenti” come ha detto il ministro dell’interno Cazeneuve, tanto da non riuscire a contare i partecipanti con precisione. Senza precedenti è stata anche la partecipazione a una manifestazione simile dei leader di altri paesi, europei e non, per dare ulteriore peso e importanza alla mobilitazione. Le prime manifestazioni avevano il chiaro obiettivo di dire no alla limitazione della libertà di opinione ed espressione in Francia e, in generale in occidente, e in parte l’ha avuta quella dell’11. Ma i dati dello scorso dicembre di Reporters Sans Frontieres hanno fatto un triste quadro sulla libertà di espressione nei paesi del mondo, anche della stessa Europa, e compresi quei paesi che hanno marciato nelle strade di Parigi. La stessa Francia pochi giorni dopo l’attentato ha proposto di accedere agli internet provider per identificare e bloccare rapidamente «i contenuti che incitano all’odio e al terrore» senza necessariamente passare dal giudice. Un confine tra libertà e sicurezza che si fa sempre più delicato dopo situazioni drammatiche come quelle di Charlie Hebdo. Dopo l’attentato nella redazione del giornale satirico, ci sono stati altri episodi di minacce e intimidazioni in Francia, ma anche a Bruxelles, ad Amburgo ma «è troppo presto per fare collegamenti che probabilmente non ci sono – dice la giornalista Arianna Ciccone, direttrice del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia e curatrice di Valigia Blu – quando ci sono episodi come quello di Parigi c’è una spinta a iniziative simili, ma anche personali e individuali, e non connesse a strategie più ampie».

Cosa pensa della sfilata dei leader?

«C’è stata una buona dose di ipocrisia, anche da parte dei premier occidentali che hanno sfilato insieme a leader e ministri discutibili. Se si sfila in Francia per la libertà di espressione, non è accettabile che nei propri paesi i giornalisti siano in carcere, minacciati dal governo o, come in Arabia Saudita, vivano situazioni come il blogger che ha ricevuto le prime 50 di mille frustate per aver aperto un blog critico contro l’islam e la politica, proprio mentre i leader erano in marcia. In qualche modo c’è un po’ di ipocrisia anche da parte nostra che l’abbiamo accettato. Uno sfregio alla stessa Charlie Hebdo. Reporter senza frontiere li ha chiamato “predatori”; uno dei casi più eclatanti è quello dell’Egitto: 16 giornalisti in carcere, 3 di questi sono di Al Jazeera e sono accusati di terrorismo. O la Turchia, che ha il più alto numero di giornalisti in galera; ma in Francia erano presenti anche la Russia, il Gabon, l’Ungheria, che non si possono certo considerare paesi amici della libertà di informazione».

Controllo e tutela: il confine è sottile e la politica cerca di intervenire.

«Questo è un problema serio: ora c’è in campo tutta quella politica che vuole mettere sotto controllo la rete. Il confine tra la libertà e la sicurezza dei cittadini è di una delicatezza estrema. Un paese sotto controllo massiccio, negli Usa come in Europa, come ci aveva evidenziato il caso Snowden, ha in effetti qualche problema con il rispetto dei diritti. Un attacco alla libertà di espressione diventa dal punto di vista politico immediatamente una spinta a controllarla. La rete sotto controllo diretto della polizia non è solo una proposta francese, ma anche, per esempio, italiana».

Secondo lei è corretto entrare nel merito della satira, ad esempio delle vignette?

«Nel 2012, come Valigia Blu facemmo proprio una discussione su Charlie Hebdo, poi decidemmo di renderla pubblica. Io penso che la satira si può criticare, ognuno di noi deve poter esprimere il proprio giudizio. La satira in sé è anche la possibilità di fotografare l’osceno in cui viviamo, e non mi preoccupo di questo. Oggi però c’è un contesto diverso: pensando al dibattito, soprattutto in Gran Bretagna e Usa, sull’opportunità o meno di pubblicare le vignette sull’Islam di Charlie Hebdo, credo che la discussione sia superata. Sono state uccise delle persone per quelle vignette, dunque diventano un simbolo e superano l’aspetto di contesto e di attualità. Simbolo della libertà di espressione, con un significato più ampio, che appartiene a un mondo più complesso dei paesi con la democrazia».

Questo discorso ci fa pensare alla libertà di espressione in Italia: a che punto siamo?

«In Italia abbiamo notizie di giornalisti minacciati, uno dei casi più recenti è quello di Lirio Abbate, del gruppo l’Espresso, minacciato dalla mafia, che ora è sotto scorta. Siamo un paese con grandi e coraggiosi giornalisti, ma purtroppo il sistema dominante è quello in cui, anche senza mafia, vige l’asservimento alla politica, che inquina tutto. Ci sarebbe bisogno di un giornalismo libero dalle dinamiche politiche, nelle quali si inserisce anche l’editoria, con interessi fortissimi in altri campi: tutto questo ci rende cittadini più fragili».

Ascolta l’intervista su Radio Beckwith

Foto via Twitter