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Sommersi e salvati

È una storia, questa, di mare e natanti, uomini e donne, sommersi e salvati.

Senza lieto fine, anzi, a dire il vero, senza una fine che possa essere intravista.

È una storia che provo a raccontare raggrumando, in quelle che mi sembrano parole chiave, un’esperienza, la mia esperienza. Dunque:

Mare. Blu, calmo, placido, tranquillo, increspato, spumoso, e poi mosso, grigio, scuro, burrascoso, pauroso, che sembra guardarti e, con le onde che si alzano, volerti abbracciare e portarti con sé giù, giù.

Nave. D’acciaio, armata, piccola e veloce, sottratta per uno di quei miracoli che talora accadono ai suoi compiti istituzionali. Non è lì per la guerra, per sparare e uccidere, ma lavora per salvare, per far vivere.

Radar. Ruota, ruota… Un punto colorato appare, fugace, poi scompare. Si è perso… Eccolo di nuovo.

Elicottero. Subito messo in moto, si solleva con fragore assordante dalla poppa, si allontana, il rumore si attenua fino a svanire mentre rimane visibile solo un punto all’orizzonte.

Pomeriggio. Passa nell’attesa, il radar ha ripreso il punto, i giovani elicotteristi sono già atterrati e ripartiti due volte dopo il rifornimento, il gommone non si trova ma loro non vogliono mollare. Alla fine la loro testardaggine è ricompensata, è già l’imbrunire ma il gommone viene individuato. A venti miglia. La nave, che sembrava assopita al pallido sole pomeridiano, si rianima d’un colpo, come risvegliata dal vento che rapidamente increspa e poi solleva in alte onde il mare. L’equipaggio si muove agile ed efficiente con la rapidità dovuta alla esperienza maturata, e la nave si dirige verso il punto indicato .

Notte. Scura, falce di luna, mare buio, alto, gommone, poco sopra il pelo dell’acqua, fragile, sbattuto dalle onde. Fare presto, forse i morti avvistati dall’alto non sono tali, forse sono solo svenuti, ci diciamo. Due lance vengono rapidamente messe in acqua e partono veloci planando da un’onda all’altra.

Occhi. A decine, scuri, spaventati, imploranti, felici, disperati. Occhi di giovani emaciati, magri, immobili, tremanti, inzuppati, inebetiti dalla paura e dal freddo ti fissano.

Marinai. Forti, sicuri, rassicuranti gridano, urlano per farsi sentire, danno ordini, tranquillizzano, affrettano il trasbordo, il gommone potrebbe affondare in ogni momento. Non puoi fare a meno di ammirarli mentre li vedi all’opera.

Vittime. Così si dice con termine asettico, neutro… Direi invece morti, cadaveri, quattro, galleggianti a testa in giù nell’acqua che emana un acre odore di cherosene (svenuti probabilmente, e poi calpestati dagli altri e annegati). Morti senza alcun dubbio, purtroppo, di cui, girandoli con fatica sulla schiena, riesci a vedere il volto gonfio alla luce delle lampade incerte. Giovani tutti, uno di loro, che indossa la maglia del Barcellona, non più che sedicenne. Un teenager, insomma, con gli stessi sogni di tanti altri suoi coetanei. Ma i sogni, come ognuno di noi sa, per diventare realtà pretendono talora di essere pagati a caro prezzo. Anche a quello della vita.

Salvati. Ce ne sono, per fortuna, anche se non sapremo mai in che percentuale rispetto ai loro compagni morti (i numeri riportati dalle statistiche ufficiali sottostimano le vittime). Salvati esclusivamente grazie, ed è necessario dirlo chiaro, all’impegno degli uomini della Marina Militare impegnati nell’operazione Mare Nostrum e dei volontari sanitari della Croce Rossa. Non ho alcuna esitazione ad affermare che Mare Nostrum – su cui il nostro Governo che pure l’ha meritoriamente promossa tende a mantenere un rigoroso understatement temendo gli attacchi degli opposti (o sovrapponibili?) estremisti Grillo e Salvini – è una delle poche imprese civili promosse dal nostro Paese negli ultimi anni di cui esser fieri, che ci permette di andare a testa alta nel novero dei Paesi europei, tutti, al contrario, impegnati ad erigere barriere contro quelli che vengono visti come «invasori».

Vita. È estenuante il lavoro necessario a portare i naufraghi sulla nave: il buio, il vento, le onde alte, la loro paura a salire sulla scala di corda tesa sulla fiancata richiedono molto impegno ai marinai, ma alla fine tutti sono a bordo (tutti… cioè i sopravvissuti, perché si saprà poi che circa venti mancano all’appello, spariti lungo il viaggio). C’è anche Rinshaw, giovane nigeriana ventiduenne in stato di avanzata gravidanza: pallida, cerea, zuppa d’acqua, intirizzita. Vomita. Si cerca di creare in un angolo un minimo di privacy, viene spogliata, asciugata, frizionata per creare un po’ di calore. Sulla nave non c’è vestiario per i migranti; uno di noi fruga nella propria valigia cercando il necessario per poterla rivestire mentre il cuoco scalda dell’acqua in una pentola dove immergiamo delle flebo per portarle a temperatura corporea e poi infonderle. Alla fine sta meglio, c’è uno scambio di sorrisi e un thanks, quindi si addormenta su un fianco (partorirà il giorno dopo sulla nave attrezzata dove siamo riusciti a trasferirla. Testimone sarà il nome del figlio). Un punto, per fortuna, a favore di Eros nella lotta senza fine che conduce con Thanatos.

Ebrei. Uso il termine allusivamente, non certo per creare analogie storiche del tutto inesistenti. Ma, se riflettiamo sul fenomeno attuale delle migrazioni nella sua estensione e al fatto che milioni sono le persone coinvolte, se cerchiamo di immaginare empaticamente la realtà quotidiana dei singoli migranti che, strappati da guerre e miseria dal loro Paese, si ritrovano in balia di uomini ed eventi a cercare fortuna in paesi stranieri di cui nulla sanno, senza diritti e senza potere, senza futuro e con un incerto presente, sottoposti a leggi e regolamenti elaborati per rendere ancora più difficile la loro vita, ecco, allora a me sembra del tutto evidente che i migranti incarnano oggi l’antica figura dell’ebreo errante, perseguitato, scacciato e senza patria.

E allora, così come non possiamo, da occidentali, assolverci dalle responsabilità per le sofferenze causate per secoli dalla nostra «civiltà» agli Ebrei, così oggi di fronte ai nuovi Ebrei siamo chiamati, credenti e non credenti, a non chiudere gli occhi di fronte alle tragedie che quotidianamente essi vivono sotto i nostri occhi distratti.

Foto Luciano Griso