dante

Dal realismo alla contemplazione di Dio

Sembra un paradosso: ma di paradossi (anche di paradossi) vive la grande letteratura e a volte proprio i paradossi regolano i nostri rapporti con la fede e con Dio – o, quantomeno, con un atteggiamento di contemplazione, di preghiera, di ricerca nei suoi confronti. Il discorso può valere dunque anche per la Divina Commedia di Dante, e viene rinvigorito dallo stimolante lavoro di Stefano Levi della Torre, rielaborazione di un precedente libro destinato alle scuole. Si trattava, allora, di schede per una guida alla lettura delle tre cantiche, mentre l’edizione attuale prevede un percorso tra Inferno, Purgatorio e Paradiso corredato da un gran numero di disegni in bianco e nero (l’autore, oltre che saggista, è anche pittore e architetto) ma soprattutto introdotto da un’idea forte; forte perché, appunto, paradossale: per poter esprimere un discorso concettuale ma soprattutto di fede, per mettere a disposizione di tutti una sua propria visione del mondo (una visione provvidenziale, regolata dalla volontà divina), cioè per fare un discorso che parrebbe astratto e appartenere al mondo delle idee, ebbene per fare tutto ciò Dante, nella sua grandezza, ricorre a una costruzione realistica. Realistico è l’impianto, realistica l’ambientazione, realistiche le caratterizzazioni dei personaggi principali e secondari, realistici i paesaggi e gli elementi di sfondo.

La precisione nelle descrizioni (è questo uno dei primi appunti che fa Levi della Torre) non annulla pedantemente, anzi rafforza le emozioni contenute nel poema. Siamo nell’introduzione («“Un visibile parlare”. La figurazione nella Divina Commedia»), dove l’autore riprende gli appunti per un corso tenuto all’Università di Münster nel 2004 e addirittura un proprio diario personale. Si annotò, allora, la straordinaria ed efficace concisione con cui Dante, narrando di Oderisi da Gubbio, posto nel Purgatorio fra i superbi (XI, 74-78), raffigura icasticamente lo sguardo delle anime costrette a portare sulla schiena dei massi, e la speranza con cui esse guardano a chi le avvicini. Da quella esattezza descrittiva, suffragata anche da un raffinato uso dei tempi verbali («e videmi e conobbemi e chiamava/ tenendo gli occhi con fatica fisi/ a me…»), Levi deduce un «desiderio fondamentale e infantile: quello di essere ascoltati, riconosciuti» (p. 8): altro che poema astruso, didascalico, soprannaturale, astrattamente teologico…: «questa nostalgia del mondo che emana dalle anime che Dante incontra è contagiosa, perché è realistica e si esprime attraverso l’esattezza realistica della poesia» (p. 9).

Già proiettato verso quella che sarà la fine del Medio Evo e l’avvento di un’altra età, Dante gioca sul «crinale (…) della distanza intellettuale da noi e quello della vicinanza a noi» (p. 20): si serve della storia, di personaggi realmente esistiti, per annunciare l’ingresso della trascendenza nelle nostre vite, di un piano salvifico che viene da Dio e che attende di essere accettato o respinto da uomini e donne contemporanei e posteri rispetto al poeta. La massima realtà è per lui il progetto di Dio, non la banalità delle nostre vicende, e per raffigurarlo Dante in fondo fa qualcosa di simile a ciò che fece Dio stesso: per rappresentare se stesso, dovette incarnarsi, in Gesù Cristo.

Stefano Levi della Torre è anche teorico dell’arte, insegna al Politecnico di Milano; e si considera a tutti gli effetti un laico benché, di origine ebraica, sia assai avvertito in materia di conoscenza biblica. Però è un artista, e quindi le sue note non sono quelle di un «addetto ai lavori», ma si presentano esse stesse come immagini, squarci, aperture su ognuna delle figure dantesche prese in esame. Tre esempi: nell’Inferno spicca l’orrore suscitato da Cerbero (VI, 22-24), descritto come «vermo» (verme) ma dall’aspetto mezzo canino e mezzo umano (ed è proprio la sopravvivenza di alcuni tratti umani a renderlo terrificante); nelle divagazioni trasognate del Purgatorio l’autore ci mostra la complessità della tavolozza dantesca (il capitolo è intitolato «Progressione delle luci») nei primi due canti: dall’alba al pieno sole («Dolce color d’orïental zaffiro»), un primo chiarore da Est, poi il sole che «faceva tutto rider l’orïente, velando i Pesci ch’erano in sua scorta» (cioè una luce che prende il sopravvento, facendo passare in secondo piano, ormai attenuata, quella delle stelle più notturne), finché, in piena luce, Dante stesso può dire: «conobbi il tremolar de la marina», essendosi definita la vista della costa: «la marina non è solo il mare, ma l’acqua, la riva, l’aria, il riflesso del cielo» (p. 113). Nel Paradiso infine il poeta è chiamato a un’ancor più ardua impresa, quella di raccontare la contemplazione di Dio: «Da quinci innanzi il mio veder fu maggio/ che ‘l parlar mostra» – ciò che si vede è maggiore, supera le capacità umane di raccontare, richiede un passo successivo che sarà solo quello della fede. Qui il realismo sta nella capacità di descrivere non Dio (sarebbe impossibile) ma lo stupore e l’animo del poeta di fronte a Lui. Non viene meno la precisione, né l’intento pedagogico (non didascalico) della Commedia: non viene meno la voglia di leggerla e approfondirla, di commentarla e di prenderla come stimolo a interrogare noi stessi. Ecco perché i classici durano nel tempo.

* Stefano Levi della Torre, Realismo di Dante. Disegni e letture della Divina Commedia. Brescia, Morcelliana, 2014, pp. 195, euro 15,00.

Foto: “Dante Statue“. Licensed under CC BY 3.0 via Wikipedia.