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Debito pubblico: storia di una truffa

Il dibattito sulla crisi economica di questi anni, le difficoltà degli Stati nel gestire un debito pubblico galoppante, la necessità di tagliare e risparmiare ovunque per tentare di arginare una deriva economica imminente: i mezzi di comunicazione ci inondano da anni con notizie a tema e le reti televisive si intasano di talk show che fingono di analizzare i problemi fungendo in realtà da palcoscenico a teatranti vari. Ovunque sempre le stesse ricette ripetute allo sfinimento: sacrificarsi. L’ultimo libro di Paolo Ferrero, già dal titolo, “La truffa del debito pubblico”, edito da Derive Approdi, già in ristampa dopo l’esaurimento della prima edizione, si propone di smontare uno dei totem su cui si basa la dottrina neoliberista dominante. Ha il pregio, mediante un linguaggio piano e lineare, libero da barocchismi tecnici che hanno il solo scopo di creare una cortina fumogena, di proporre un punto di vista differente, partendo dalla rivelazione che uno dei temi forti più utilizzati, quello del debito pubblico, è falso tout court.

«In Italia non c’è più alcuna discussione politica che entri nel merito della situazione del debito pubblico, e chi osa parlarne viene additato come un bambino che non ha capito nulla, che ingenuamente parla di temi che non lo riguardano – spiega Ferrero- Il debito è visto come una sorta di principio ordinatore da cui tutto deriva e che tutto condiziona, immutabile e destinato solo a crescere se non si corre ai ripari con tagli continui. In realtà nel libro spiego come la situazione non è sempre stata questa, ma lo è diventata a partire dal 1981, dal momento cioè della separazione fra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro. Da allora lo Stato ha perso le garanzie di acquisto di titoli di Stato a prezzo calmierato, controllato dal Ministero, e si è affidato in toto al mercato e agli speculatori finanziari. I tassi di interesse pagati sul debito, che in quegli anni erano più bassi del tasso di inflazione e si aggiravano attorno all’1%, sono schizzati fino al 4,2%, un tasso da usura che strangola le economie. Da quel momento il debito è arrivato fino a oltre il 120% nel 1992, e una volta arrivato a quei livelli è stato utilizzato come scusa per iniziare a pensare ai tagli sistematici e alle privatizzazioni del welfare e di ogni aspetto della vita pubblica».

Si svelano in questo modo due paradossi: il primo è che il debito non è colpa della spesa pubblica incontrollata, e il secondo è che l’Italia dal 1992 risparmia e continua a farlo, spendendo meno, sempre meno, rispetto alle entrate fiscali. Almeno 500 miliardi in meno sono stati spesi dal 1992 ad oggi rispetto alle entrate, strozzando la ripresa. «E’ proprio così, e il meccanismo è spiegato tramite grafici che lasciano poco spazio a interpretazioni. Si parla ogni giorno di tagli alla spesa, ma la nostra è già in percentuale la più bassa d’Europa. L’unico buco pazzesco è dato dagli 80 miliardi l’anno di interessi che paghiamo sul debito. E’ qui si cela la vera follia: la Banca centrale europea vende denaro alle banche private a tassi bassissimi, lo 0,05%, mentre agli Stati no, e l’Italia si trova così a pagare interessi pazzeschi: se potesse acquistare come le banche private pagheremmo un miliardo all’anno di interessi, e non 80: sarebbe una svolta incredibile».

Manca quindi una risposta politica forte e competente: «Tutte le forze politiche ad eccezione di Rifondazione Comunista condividono questa visione del dominio assoluto del mercato, per cui nessuno mette seriamente in discussione questo totem. Lo stesso Salvini o suoi sodali che chiedono l’uscita dalla moneta europea, hanno votato compatti tutte le leggi italiane sul pareggio di bilancio e i trattati europei, da Maastricht a Lisbona, che hanno posto le basi di questa situazione. Le privatizzazioni spinte, viste come presunta soluzione per risparmiare, portano in realtà soltanto all’arricchimento dei privati e innescano un meccanismo di tangenti che è sotto gli occhi di tutti. Fino a quando il welfare e la sanità erano in mano al pubblico, si poteva discutere di produttività da migliorare, ma non vi erano le ruberie di oggi, contro cui tutti sbraitano, ma che in realtà fanno comodo perché generano denaro sporco da utilizzare per i fini più disparati. Chi propone austerity e rigore mente perché sa benissimo che in questo modo si strozza la ripresa, ma è ciò a cui ambisce per poter depauperare il settore pubblico e poter speculare sul privato».

La politica in Italia sembra percorsa da un vento nuovo, ma in realtà il semestre europeo, annunciato in pompa magna come l’occasione in cui l’Italia avrebbe dettato l’agenda economica a tutto il continente, si sta chiudendo con un clamoroso nulla di fatto: «Non si è nemmeno riusciti a organizzare un tavolo europeo sull’emergenza lavoro. Renzi sembra diverso da Monti o dai tecnici che ci ripetevano come un mantra la necessità di sacrifici, ma in realtà i loro obiettivi sono identici: distruggere il welfare, ridurre i salari liberalizzando il lavoro e abolire i sindacati».

Un quadro sconfortante, in cui nessuno si alza a rivelare che in realtà il re è nudo. Le vie suggerite dal libro per uscire da questa spirale sono due: da un lato obbligare la Banca centrale ad acquistare almeno il 60% del debito pubblico dei vari Paesi, e al contempo prevedere il prestito di denaro ai tassi riservati ai privati, consentendo in questo modo investimenti, e dall’altro lato si suggerisce una disobbedienza nei confronti dei vari trattati, in quelle parti che vanno a collidere con le necessità di ripartenza degli Stati. « Sul primo aspetto è sufficiente pensare che la Federal Reserve negli Stati Uniti in 6 anni ha acquistato 450 miliardi di dollari di debito statunitense a tasso zero, per aiutare l’economia a ripartire come sta effettivamente accadendo. E non stiamo parlando certo di una nazione socialista. Sulla disobbedienza serve un nuovo patto europeo, una sorta di new deal continentale che si occupi di lavori pubblici, non di grandi opere ma di recupero dell’assetto idrogeologico, di tecnologie alternative, di welfare, superando i vincoli imposti dalla finanza. L’Italia ha necessità di sbloccare fondi per ripartire».

Per concludere il libro non pone come obiettivo finale l’uscita dalla moneta unica, ma dotare i Paesi di strumentazioni che li proteggano dalle speculazioni internazionali e avviare nuove politiche del lavoro, con leggi e regolamenti comuni, senza lasciare ad ogni Stato le proprie regole, creando una guerra fra poveri. Chi può farsi carico di queste sfide? «Finalmente il sindacato si sta opponendo a tutto ciò, e penso che da lì vada ricostruita una sinistra del lavoro, per rovesciare queste politiche: una sinistra unita in alternativa al Partito democratico, che non c’entra più niente con idee seppur vaghe di sinistra. L’Italia è la sesta potenza del mondo per esportazioni e ci rappresentano come di una sorta di zattera alla deriva per farci ingoiare tutto, ma in realtà siamo ancora una potenza che stanno cercando di depredare. Si tratta di una falsificazione, in cui la responsabilità dei giornalisti è grave perché ripetono i totem dominanti, perché i media sono in mano a chi ci guadagna da questa situazione».

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