renzi_pes

Lavoro: normativa in progress tra incertezze e penalizzazioni

Il Parlamento ha approvato il Jobs Act, ovvero una legge ordinaria che delega il governo a tradurre in cinque decreti la materia lavoro (ammortizzatori sociali, servizi per il lavoro, semplificazione delle procedure e degli adempimenti, riordino delle forme contrattuali, tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e lavoro).

Ecco il principale problema che si pone nel dover analizzare o valutare una manovra che si configura con questo strumento normativo. In quanto legge delega, infatti, il contenuto non è chiaramente disciplinato e lascia ampi margini di manovra nella stesura successiva dei decreti. Da qui l’espressione “delega in bianco” al governo in materia lavoro, dato che saranno i decreti delegati a disciplinare le norme di dettaglio.

Veniamo ai contenuti.

Un tentativo di ridurre le eccessive forme contrattuali esistenti oggi (circa una quarantina) si intravede, ma al prezzo di una riduzione delle tutele esistenti nelle forme contrattuali cosiddette tipiche.

Il contratto a tempo indeterminato, infatti, viene potenziato incentivando le aziende ad assumere con questa forma grazie a sgravi fiscali, ma lega il pieno godimento delle tutele da parte del lavoratore alla sua anzianità di servizio, e comunque non prima di tre anni di contratto. Da qui il nome “contratto a tutele crescenti”.

I contratti a tempo determinato nella disciplina introdotta con la riforma Fornero erano possibili senza indicarne la causale (quindi senza specificare il motivo per cui non si assuma stabilmente) per un massimo di 12 mesi. Già con il Decreto Poletti, invece, questo tempo viene innalzato a 36, rendendo di fatto più facile il mantenimento del lavoratore in una condizione precaria. L’unico vincolo che viene posto a carico dell’azienda è di non avere una forza lavoro a tempo determinato che superi il 20 per cento del totale dei propri lavoratori.

I contratti di apprendistato vengono indeboliti sia negli obblighi formativi, che riducendo i vincoli per le aziende. Ad esempio si elimina l’obbligo del datore di confermare i precedenti apprendisti prima di assumerne di nuovi, facilitando di fatto un abuso dello strumento normativo in termini di sgravi fiscali a beneficio dell’azienda, invece di puntare al rafforzamento della reale e necessaria formazione professionale.

Nel Jobs Act si fa un riferimento all’eliminazione dei contratti a progetto e di collaborazione (i cosiddetti parasubordinati) nel tentativo di incanalare queste forme contrattuali in quelle tipiche, ma senza chiarire dove poter inquadrare tutte le forme di lavoro che si stanno espandendo sempre di più restando borderline tra il lavoro dipendente e quello autonomo. Di fatto al momento la riduzione delle forme di precarietà è assolutamente vaga e non disciplinata.

Buoni invece i tentativi, ancora da confermare con le disposizioni dettagliate dei decreti, di estendere la tutela della maternità, rafforzare il diritto di precedenza delle donne al rientro dal congedo di maternità rispetto alle assunzioni con le stesse mansioni, e di rivedere quanto previsto dalla riforma Fornero relativamente alle cosiddette “dimissioni in bianco”, prevedendo modalità di verifica dell’autenticità della volontà del lavoratore di risolvere consensualmente il rapporto di lavoro.

Veniamo al tanto discusso articolo 18. Depurando l’argomento dai luoghi comuni che ci sono stati costruiti attorno per ragioni più politiche che normative, l’articolo 18 del post-riforma Fornero, prevede la possibilità da parte del lavoratore di impugnare il licenziamento ritenuto illegittimo se avvenuto per motivi: economici (per ristrutturazioni aziendali o tagli dei costi del personale), disciplinari (per comportamenti che facciano venir meno il rapporto fiduciario col datore) o discriminatori (per credo politico, religioso o orientamento sessuale).

Il Jobs Act prevede che il diritto al reintegro nel posto di lavoro (ovviamente accertato da un giudice a seguito delle dovute verifiche) venga limitato alle ultime due tipologie di licenziamento, escludendo quelli per fattori economici per i quali, nel caso vengano impugnati, al massimo viene previsto un risarcimento, ma non più il reintegro nel posto di lavoro.

Cosa ancora più preoccupante e grave dal punto di vista della tutela del lavoratore è l’intenzione di concedere indennizzi più corposi o defiscalizzati per chi rinuncia ad aprire un contenzioso con il datore di lavoro. Di fatto un accordo tra le parti in cui il rapporto di forza è sbilanciato a favore dell’azienda che licenzia e che, se non viene contestata dal lavoratore licenziato, concede anche una buonuscita. Come svilire il proprio diritto alla tutela.

La legge delega non chiarisce molti altri punti chiave, ad esempio quali siano i licenziamenti incasellabili nei motivi economici e quindi nell’impossibilità di ottenere un reintegro nel posto di lavoro, né se eventuali demansionamenti siano accettabili a fronte della conservazione del posto di lavoro (quindi l’azienda può teoricamente demansionare a patto di non licenziare, che detta così sembra quasi l’istituzionalizzazione di una forma di mobbing).

Scompare la cassa integrazione in deroga per lasciare il posto alla nuova Naspi (Nuova assicurazione sociale per l’impiego) ovvero un sussidio di disoccupazione esteso a chiunque perda il posto di lavoro, con qualsiasi forma contrattuale, dopo aver lavorato almeno tre mesi.

Vengono razionalizzate la Cassa integrazione ordinaria e straordinaria a favore di un sussidio aggiuntivo a chi, terminato il periodo massimo di Naspi e in difficoltà economiche accertate, non abbia ancora trovato lavoro.

Il lato debole di questo aspetto della manovra è che l’introduzione di questi sostegni al reddito apparentemente estensivi, riducono gli strumenti positivi a favore delle aziende e dei lavoratori che già oggi sono coinvolti nella crisi.

Inoltre, la cassa integrazione va a sostegno di un momento di difficoltà dell’azienda in cui il lavoratore resta comunque in forza lavoro, mentre il percepire un sussidio di disoccupazione presuppone l’essere già stati esclusi dalla forza lavoro aziendale.

Il sistema della cassa integrazione ordinaria e straordinaria andrebbe esteso invece che stilizzato, così da rendere gli ammortizzatori sociali effettivamente universali, dando copertura sia all’artigianato che all’industria, sia alla grande che alla piccola impresa.

Così come è stato approvato, il Jobs Act non si configura come una manovra economica e sociale che permette di sostenere aziende e lavoratori in attesa che le necessarie politiche industriali, e un piano di investimenti pubblici e privati, intervengano per creare nuovi posti di lavoro e condizioni di sviluppo.

Ovviamente restiamo in attesa dei decreti delegati per capire se venga corretto il tiro in relazione al sistema di tutele e diritti, e soprattutto al contrasto alle forme di lavoro precario.

Lo snellimento delle forme contrattuali e la lotta a sprechi e inefficienze nella Pubblica Amministrazione possono portare all’obiettivo di flessibilità di cui l’Italia ha bisogno, ma a patto di non cadere nella precarizzazione delle condizioni di lavoro e vita dei lavoratori.

Fonte copertina: “Renzi PES” by SPO – ficlkr.com. Licensed under CC BY-SA 2.0 via Wikimedia Commons.