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Firenze, apre Casa Giunia

Domenica 7 dicembre, come già annunciato sul settimanale Riforma del 28 novembre (pag. 10) e online sul nostro sito, il Gruppo di lavoro sulle carceri della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) propone alle chiese di celebrare la domenica delle «catene spezzate», una domenica per riflettere e pregare insieme sul tema delle carceri. L’iniziativa, spiegava il pastore Francesco Sciotto, «fa il paio e va di pari passo con la domenica della diaconia» delle chiese metodiste e valdesi, la cui colletta sarà destinata alla «Casa del Melograno» della Diaconia valdese fiorentina, una struttura che ospita detenuti in permesso premio e persone in misura alternativa al carcere. Giovedì 4 dicembre sarà inaugurata un’altra struttura destinata ad offrire un’alternativa al carcere, la «Casa Giunia» promossa dalla Chiesa battista di Firenze. All’inaugurazione, che avrà luogo alle18 in Borgo Ognissanti 6, parteciperanno il moderatore della Tavola valdese, Eugenio Bernardini, il presidente dell’Unione battista, Raffaele Volpe, e il garante per i diritti dei detenuti del Comune di Firenze, Eros Croccolini. Sarà inoltre presentato il volume «Alice la guardia e l’asino bianco», curato da Monica Sarsini e scritto dalle detenute del carcere di Sollicciano. Abbiamo parlato del progetto con Anna Maffei, pastora della Chiesa battista di Firenze.

In che cosa consiste il progetto «Casa Giunia»?

«Si tratta di un progetto per il reinserimento sociale di donne detenute in fine pena o uscite da poco dal carcere. È stato pensato a partire dal lavoro che i ministri della Chiesa battista di Firenze hanno avviato nel carcere cittadino di Sollicciano. Ed è nato perchė ci siamo resi conto che a Firenze praticamente non esistono luoghi che possano dare un’alternativa al carcere alle donne detenute (a parte qualche posto in un istituto di suore). Con le nuove norme, infatti, è possibile uscire dal carcere negli ultimi anni di detenzione, in alcuni casi addirittura usufruire di “misure alternative” al carcere sin dall’inizio della pena. Purché ci sia una struttura adeguata e in qualche modo “protetta”: e proprio l’assenza di tali strutture in città è il problema».

Come si presenta la casa, e come si finanzia il progetto?

«Per i primi due anni il progetto, presentato dall’Associazione di donne native e immigrate “Punto di partenza” è stato interamente finanziato dall’otto per mille delle chiese metodiste e valdesi. Di questo progetto la chiesa è partner e ha messo a disposizione a questo scopo parte dei suoi locali sussidiari situati al secondo piano dell’edificio dove è ubicata la chiesa. L’alloggio è oggi interamente ristrutturato e può di ospitare fino a sei donne».

E le risorse umane?

«Fino ad oggi tutta la progettazione è stata portata avanti da un gruppo di volontarie dell’associazione e della chiesa. Il coordinamento è stato affidato a Mercedes Frias. Quando la struttura sarà pienamente operativa avremo la possibilità di assumere un’operatrice a tempo parziale. Ma è chiaro che gran parte del lavoro sarà svolto volontariamente da persone che si sono rese disponibili e che esprimono varie professionalità, dall’assistente sociale all’educatrice, dalla psicologa alla formatrice nel campo della ristorazione. Il progetto non si prefigge soltanto di dare accoglienza ma di orientare in un percorso di accompagnamento che aiuti a uscire dalla marginalità e a riprogettare la propria vita. In questi percorsi di reinserimento sociale utilizzeremo tutte le risorse presenti sul territorio con cui facciamo rete. Un altro partner del progetto è oggi la onlus “Diaconia”, nata in seno alla chiesa battista di Firenze».

Parliamo del lavoro pastorale che la chiesa ha sviluppato nel carcere di Sollicciano. Chi anima questa presenza?

«L’Intesa tra l’Unione battista e lo Stato consente alle chiese battiste di nominare più “ministri” delegati alla cura pastorale nelle carceri. Quindi attualmente la Chiesa battista di Firenze ha otto ministri autorizzati a entrare in carcere: di questi due sono pastori, e gli altri “laici”. È un lavoro ampio, che si svolge in varie sezioni del penitenziario: penale, giudiziario, donne, reparto transessuali e persino il reparto dei sex offenders. Un lavoro che ha fortemente coinvolto la comunità, tanto che da un paio di anni stiamo ospitando detenuti agli arresti domiciliari o ex detenuti: attualmente ne ospitiamo uno nei locali comunitari e due sono ospitati da due ministri per le carceri nella loro casa».

Collaborate anche con le altre chiese?

«Esiste un’ottima collaborazione con la Chiesa valdese, non solo perché il progetto è finanziato dal’otto per mille valdese, ma anche perché la Diaconia valdese fiorentina ha aperto un centro analogo al nostro per detenuti uomini, la Casa del Melograno (vedi la scheda su Riforma n. 44, pag. 10) e la loro esperienza è per noi preziosissima. Esiste poi un gruppo interdenominazionale sulle carceri, di cui fanno parte battisti, metodisti, valdesi e Chiesa dei Fratelli, che sta cercando di avviare in particolare iniziative di socializzazione dei detenuti, rispondendo alle sollecitazioni della direzione del carcere che, dopo la condanna dell’Italia da parte della Corte di Strasburgo per la situazione delle carceri, sta cercando di dare ai detenuti sempre più opportunità di attività sociali e formative. C’è anche una buona collaborazione con i pastori della chiesa avventista che ci danno una mano nei culti in carcere e con la radio avventista, Radio Voce della speranza, che dedica regolarmente una trasmissione al lavoro di testimonianza in carcere».

Perché avete chiamato il progetto «Casa Giunia»?

«Giunia è il nome di una donna citata dall’apostolo Paolo nei saluti finali della lettera ai Romani, al capitolo 16: “Salutate Andronico e Giunia, miei parenti e compagni di prigionia, i quali si sono segnalati fra gli apostoli” (Romani 16,7). Dunque Giunia è stata in carcere con Paolo, ma non solo: è anche una “apostola”, l’unica ad essere chiamata esplicitamente con questo titolo in tutto il Nuovo Testamento. Detenuta e apostola: intitolando a lei la Casa abbiamo voluto dare visibilità a una delle tante donne cristiane la cui memoria, per troppi secoli, è stata “messa in un cassetto”».