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Attori non protagonisti

Il film è appena finito, Daniele Gaglianone esce per ricevere l’applauso. Non era facile la prova: riuscire a fare un film in cui il popolo NoTav si riconoscesse. Ha scelto di metterci personaggi diversi, quelli che davvero compongono questa valle, come un po’ tutte le valli. C’è un sindaco, un gruppo cattolico di preghiera, una radio, una famiglia che scopre che la propria casa potrebbe non esserci più, una ragaza che vuole far cambiare idea alla polizia, un carabiniere in congedo che si prende un lacrimogeno in faccia, una signora anziana che per protesta si ammanetta alla recinzione. Gente comune, quello che potrebbe succedere a ciascuno di noi. «A volte sono stufo di parlare sempre di questo treno, della polizia, di chi ha un processo, della aziende che hanno truccato gli appalti, di chi ci guadagna». «Mi hanno fermato almeno una dozzina di volte in quest’anno solo per chiedere i documenti. Sto aspettando che un giorno vengano a contestarmi qualche reato come hanno fatto con alcuni simpatizzanti».

Nel film c’è quello che succede davvero, ci sono parole, discorsi, tantissime parole, a volte anche noiose, perché nessuno ci tiene a parlare sempre di qualcosa che ti fa male, che non serve, che è un spreco e che allo stesso tempo sembra non avere fine. «La violenza è una parte piccola della mia vita, le manifestazioni non sono la quotidianità e tanto meno gli scontri». E infatti nel film non ci sono. C’è invece la quotidianità della vita di chi da anni vede l’assurdità delle scelte dell’istituzione pubblica. E per questo da quell’istituzione si sente sempre meno rappresentata e tutelata. Ci sono decina di migliaia di persone che non hanno mai avuto ascolto e sono diventate il simbolo di uno Stato che non dialoga e cura solo alcuni interessi privati. Ci sono i racconti di chi non ci voleva credere e poi si è arreso, convertito di fronte ai dati, alla violenza della polizia, all’ottusità dello Stato. C’è la noia, quella che provo quando vedo passare sotto il balcone di casa mia tutti i giorni da due anni, a turni, il centinaio abbondante di poliziotti che vanno a mangiare, con o senza divisa, al ristorante in fondo alla strada. Con i nostri soldi. E io che invece ascolto chi non ha più lavoro, chi non viene pagato, chi ha perso la casa o non può pagare le bollette. Vedo nigeriani arrivare in valle e chiudere i servizi dell’ospedale.

Eppure di tutto questo non si parla. Fuori da qui, si parla solo di processi, di violenza, e ogni tanto ci si inventano dei dati sullo stato di avanzamento dei lavori. La settimana scorsa sono andato a farmi un giro al cantiere, piovigginava e c’erano meno polveri in giro. Lavori fermi. Il buco è sempre lì. Penso che tra qualche anno quando ormai si sarà capito che questo treno non serve lo riempiranno di quelle scorie radioattive che in silenzio qualche mese fa abbiamo spedito in Francia, ma i francesi ce le hanno rimandate indietro. I livelli delle polveri negli ultimi mesi sono sempre molto al di sopra dei valori consentiti e nessuno fa controlli sullo smaltimento dell’amianto. I progettisti stessi dichiarano che date le condizioni non è possibile garantire il rispetto delle norme di sicurezza ed è quindi preventivabile un aumento del 10-15% delle malattie respiratorie e del mesotelioma nei prossimi decenni. Penso che finirà come a Casal Monferrato, tutti saranno assolti. Non si poteva sapere e immaginare. E invece lo si sa, lo si dice da anni, almeno qui. Mi sembra impossibile che si parli di giustizia, di difesa del creato, di giornata della legalità e di lotta alla mafia e poi qui ci sia invece silenzio, disinteresse, lontananza. Eppure è qui, dove vivo io, a due passi da Torino, dalle Valli valdesi. Qui, siamo tutti attori non protagonisti. Farsi guardare da un occhio esterno è stato bello, è stato utile. Farsi raccontare da qualcuno serve a poter dire che quello che fai è vero. La velocità della comunicazione frulla le notizie e ci permette di digerirle meglio. Non si può passare tutto il tempo a indignarsi, a protestare, a discutere. Farsi raccontare dall’esterno serve a ricordare che le storie rompono le solitudini e le trasformano in politica. Questo è quello che è successo qui. Ci sono storie, gente di tutti i tipi, con molti di loro non mi ci trovo per nulla, molti votano per partiti che io non voterei mai. C’erano tutti i presupposti perché ognuno continuasse a farsi i fatti suoi anche qui, come accade altrove. Ma probabilmente l’ottusità, la violenza e l’assurdità di ciò che lo Stato sta facendo, ha permesso quello che pare non accada altrove nel paese se non sotto forma di odio verso lo straniero: l’unione delle diversità e delle storie, il dialogo, la politica dal basso, l’aggregazione, l’identità, la voglia di informarsi e di sperimentare nuovi modelli economici. O quanto meno di studiarli. Qui sono stati raccolti in circa due mesi, lo scorso inverno, più di trecentomila euro solo attraverso doni di privati, collette, cene di beneficenza, lotterie per pagare la multa ad alcuni che erano stati accusati di occupazione di suolo pubblico. Qui ho accompagnato signore ottantenni, sotto la pioggia, a mettersi in fila per acquistare un metro quadro di terreno per rendere più difficile l’esproprio dei terreni sui cui dovrebbe sorgere la stazione internazionale. Adesso i proprietari sono quasi 1200. A 20 euro al metro quadro. “Qui” è un’oretta e mezza di voci e immagini dedicato a chi non è mai venuto qui a vedere, ad ascoltare o a chiedere. Andatelo a vedere.

Foto: “Mg-k Torino Mole” by M. Klüber Fotografie – own work by M. Klüber Fotografie. Licensed under CC BY-SA 3.0 via Wikimedia Commons.