vinay

Sappiamo pagare i costi della grazia che abbiamo ricevuto?

 Da quando Norberto Bobbio scrisse «Destra e sinistra» (Donzelli 1994, e successive edizioni), la politica e la stampa si interrogano su una questione che sta diventando stucchevole: se sia, oppure no, ancora il caso di distinguere, appunto, fra una destra e una sinistra. E la politica ci mette del suo nel dare l’impressione che in fondo, su un certo numero di questioni (per esempio il rispetto del Patto di stabilità), le due polarità non siano poi tanto distinguibili. Eppure l’indicazione di Bobbio era forte, incisiva: a sinistra, secondo il filosofo torinese, stava che riteneva possibile «muovere» la gerarchia sociale dei cittadini, e far sì che anche quelli che fossero più svantaggiati in partenza (per censo e disponibilità economica) potessero aspirare a una crescita. Dirimenti non erano tanto le sigle partitiche, quanto l’impegno concreto per orientare una società nuova in questa direzione.

L’indicazione del laico Bobbio, puntualmente svillaneggiato anche oggi, guarda caso da chi nella scala sociale sta più su che giù, aveva però un antecedente, che scardinava le coordinate «storiche» della destra e della sinistra (oggi diremmo: centro-destra e centro-sinistra). Tullio Vinay (1909-1996), il pastore valdese ideatore del centro giovanile ecumenico di Agape (Prali) e del Servizio cristiano di Riesi, in tutte le opere di frontiera in cui operò, compreso il Senato dove sedette per due legislature (1976-1983), portò sempre un messaggio che si avvicinava al crinale, alla cartina di tornasole di Bobbio. Con una differenza decisiva: che il discrimine, per Vinay, è quello dell’Evangelo, anzi della disponibilità, che ognuno e ognuna di noi può avere o non avere, a seguire Cristo. L’affermazione, in sé e per sé, è lapidaria e sembra quasi ingenuamente semplice. Ovviamente nella realtà è quanto di più impegnativo si possa immaginare.

Questa impostazione di vita, una vita volta alla riconciliazione (Agape venne lanciata come progetto all’indomani della conclusione della Seconda Guerra mondiale, in una valle alpina del Piemonte che aveva visto scontrarsi durante la Resistenza gli occupanti nazifascisti e le truppe partigiane), al soccorso verso il prossimo sofferente, alla sollecitudine fraterna, perseguita per tutta la vita fin da quando, pastore a Firenze, egli nascose e nutrì famiglie ebree a rischio di sterminio, trovò espressione anche in alcune pagine, non moltissime, scritte da Vinay stesso: il resoconto della nascita del Servizio cristiano («Giorni a Riesi», Claudiana 1966, scritto con il figlio Giò); il reportage dal Vietnam a rischio genocidio («Ho visto uccidere un popolo. Sud Vietnam: tutti devono sapere», Claudiana 1974); gli scritti e discorsi al Senato («L’utopia del mondo nuovo», Claudiana 1984). Ora una scelta di questi scritti viene ripubblicata, con prefazione di Goffredo Fofi, giornalista, saggista, critico cinematografico e inesauribile «inventore» di riviste e strumenti del comunicare (fra le riviste ricordiamo «Quaderni piacentini», «Ombre rosse», «Linea d’ombra» e «Lo straniero», tuttora attiva)*.

Fofi frequentò Agape e da quell’epoca porta con sé una cura e una dedizione nel ricordare Vinay e la sua opera, che è assai rilevante all’esterno del mondo valdese. La figura del pastore valdese è stata ed è ancora associata a quella di don Lorenzo Milani a quella di Danilo Dolci: una figura che operò – scrive nella prefazione – per un ideale «di convivenza attiva, di solidarietà aperta che altri e altrove praticarono negli stessi anni, ma a cui seppe aggiungere uno spirito di pace e nonviolenza». In questo senso il riferimento «politico» più importante (in fin dei conti, l’unico) è per Vinay il Vangelo, «che resta – scrive Fofi – il più straordinario “manuale” politico di riferimento per chi aspira per sé e per gli altri a un mondo di giustizia».

Che descriva la Sicilia piuttosto che il Vietnam, i giovani «modaioli» dai capelli lunghi piuttosto che i partiti, l’idea è sempre la stessa. Non possiamo, da credenti, che schierarci con gli oppressi, le «pecore da macello», nel seguire Gesù, «colui che non aveva un luogo dove posare il capo» (p. 18).

I toni a volte sono sferzanti, disponibili nell’accogliere chiunque, a patto, però, che sia disposto al sacrificio personale: e le ammonizioni valgono anche per chi è convinto di essere un cristiano regolarmente praticante (poco importa, al riguardo, la confessione di appartenenza): perché «Ci è stata fatta una grazia ben grande nell’incontrare, attraverso gli evangeli e la testimonianza di altri credenti, il Messia… ma dobbiamo saper pagare i costi di questa grazia» (p. 33). Ecco il punto, che vale per chiese e singoli credenti, partiti e personaggi politici. Gli interventi contro l’aumento delle spese militari, specie in un’epoca che si voleva richiamare a una certa austerità (abbiamo visto che cosa nascondeva), il richiamo a battersi contro lo sterminio per fame (siamo sempre, ancora, lì…) vengono di conseguenza. Parole impegnative, ma il pastore Vinay, testimone di Gesù Cristo, era abituato a essere impegnato, fino a farsi portatore di un appello che in tanti probabilmente considerarono velleitario: «Testo di un appello che mi è stato richiesto per un’azione verso un nuovo stile di vita». Lette le premesse relative alla sequela di Cristo, le pagine successive sono la conseguenza della consapevolezza biblica di ciò che Gesù disse: «Ecco io vi mando come pecore in mezzo ai lupi» (Matteo 10, 16).

* Tullio Vinay, «Speranze umane e speranza cristiana. Scritti religiosi e politici (1967-1983)», Roma, Ed. dell’Asino, 2014, pp. 174, euro 15,00.