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La Palestina si interroga sul proprio futuro con uno sguardo al passato

Le ultime settimane a Gerusalemme sono state caratterizzate da un ritorno ad alti livelli di tensione a Gerusalemme Est. Il numero crescente di visite di esponenti dei principali gruppi nazionalisti della destra israeliana, che vorrebbero cambiare lo status quo nell’area della Spianata delle moschee, uno dei luoghi sacri sia per i musulmani sia per gli ebrei, ha portato lo scontro tra israeliani e palestinesi ad un punto tale per cui, per la prima volta dal 2000, le forze di sicurezza locali hanno deciso di chiudere a più riprese la zona degli scontri. I gruppi nazionalisti chiedono che quello che nella religione ebraica è il Monte del Tempio passi sotto la piena sovranità di Israele per poter abbattere o spostare le due moschee e ricostruire il Tempio di Jahvé, distrutto in epoca romana e di cui rimane soltanto la parete occidentale, o Muro del Pianto.

«In realtà – racconta Michele Giorgio, corrispondente dal Medio Oriente per Il Manifesto e fondatore dell’agenzia di stampa Nena News – i motivi di scontro sono molti: da nove mesi a questa parte il governo israeliano ha annunciato più volte l’ampliamento degli insediamenti, al punto che anche gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno sottolineato che la politica di espansione delle colonie non favorisce il dialogo tra le due parti. Durante l’estate c’è stato anche l’assedio di Gaza, e le visite degli ultranazionalisti, criticate persino dal ministro della Difesa israeliano, hanno portato al compimento dell’escalation».

In questo contesto, che sembra non offrire novità da oltre 40 anni, sembra esserci però un elemento di discontinuità rispetto al passato: se il patto di unità nazionale firmato ad aprile da Fatah e Hamas, i due principali partiti politici palestinesi, aveva riportato speranza nella popolazione di Gaza e Cisgiordania a proposito del riconoscimento dello Stato di Palestina da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, i recenti allontanamenti tra le parti negli ultimi mesi hanno portato alla luce la sfiducia nei confronti di una guida politica che sembra non riuscire a imparare dai propri errori e a superare le divisioni di carattere ideologico e pragmatico.

Un esempio si è avuto con l’annullamento da parte di Fatah delle celebrazioni in memoria di Yasser Arafat a dieci anni dalla morte, una decisione annunciata dal presidente palestinese Abu Mazen dopo che Hamas aveva fatto sapere di non poter tutelare la sicurezza durante le celebrazioni. «Quello che è accaduto – racconta ancora Michele Giorgio – mostra in modo inequivocabile che all’interno di questi due partiti ci sono correnti che spingono per chiudere questa riconciliazione, tant’è vero che si dice che gli attacchi che ci sono stati a Gaza nei giorni scorsi, attentati intimidatori che hanno preso di mira le proprietà, le abitazioni e le auto dei leader di Fatah, potrebbero essere stati compiuti e organizzati, da una corrente dell’ala militare di Hamas che non ha mai guardato con favore a questa riconciliazione palestinese, così come si sa che all’interno di Fatah ci sono settori che ritengono l’alleanza con Hamas una “palla al piede”, un peso che rischia di bloccare tutto».

La popolazione palestinese sembra non avere più fiducia nei propri leader e negli apparati che rappresentano: la popolazione civile a Gaza e in Cisgiordania ha chiesto nei giorni scorsi che entrambi i partiti lavorino per stare dalla stessa parte, con una piattaforma politica nazionale, concreta, pragmatica, per cercare di raggiungere l’indipendenza nel modo più rapido possibile.

Secondo Nassar Ibrahim, direttore dell’Alternative Information Center, «una leadership vera non esiste e questo fa da freno alle ambizioni collettive. Manca una strategia politica che unisca il movimento nazionale palestinese, una visione di lungo periodo rispetto ai tempi di Arafat. È una leadership fredda, congelata, se la paragoniamo a quella israeliana e a quanto richiesto dalla popolazione civile».

Oggi, in una data simbolica come quella del decennale della morte di Arafat, i sentimenti dominanti sono due: nostalgia per il vecchio leader e bisogno di un rinnovamento generazionale. Venuta meno, secondo molti osservatori, la soluzione dei “due popoli, due stati”, solo una leadership che non si trascini dietro decenni di guerre e di odio potrà tornare a sedersi ad un tavolo con Israele senza avere la tentazione, in ogni momento, di chiudere la porta e tornare allo scontro.

Foto via Flickr