marco_pantani_1997

E se volesse «ritornare polvere»?

Sono battute da vecchi film: «Ricercato per tutta la contea: vivo o morto» (vecchi western, alcuni capolavori e tanti corrivi); oppure: «Prendetelo, ma lo voglio vivo» (perché così può fare il nome di altri – patina ombrosa da gangster-film, spesso di qualità non eccelsa); o ancora, si dice popolarmente: ci servirà, magari come figura simbolica, a volte per raccogliere fondi in memoria di qualcuno, più da morto che non da vivo.

Le notizie che si alternano sul caso-Pantani parlano di inchieste da riaprire, anzi no, da richiudere, sulla morte del corridore, pieno di successi in carriera, ma anche squalificato per anomali valori sanguigni, probabile ma mai pienamente provato segnale di utilizzo di sostanze dopanti, assunte per un uso del proprio corpo finalizzato a superare forzatamente i propri limiti. Poi, a distanza di molti anni, quelle ombre di giri strani di persone intorno a lui; la riconsiderazione delle circostanze del decesso, l’ipotesi che non sia stato un suicidio e quindi, una volta di più, uno dei grandi misteri «all’italiana»– come Ustica, il caso Moro,Calvi, Sindona e tanti altri più recenti.

In termini giuridici, forse il caso sarà chiuso: passati dieci anni dalla morte (il 14 febbraio 2004 Pantani fu ritrovato deceduto in un residence di Rimini), e dopo una sentenza della Cassazione, sembrerebbe non esserci più molto da dire. Ma i sospetti aleggiano: la camorra, forse un giro di scommesse, qualcuno che voleva far chiudere la carriera, nell’ignominia, al «pirata», come era chiamato il piccolo/grande scalatore delle montagne in bicicletta. Certo, la carriera gli fu chiusa nel peggiore dei modi. Ma ora, chiunque sia a volere nuove eventuali indagini, sembra che il corpo del corridore torni alla ribalta.

Si cercano nuovi elementi, dunque, ma alcune delle parti del corpo che vennero esaminate nel corso dell’autopsia sono poi state distrutte – è la prassi. Le cronache di alcuni giornali non risparmiano dettagli abbastanza crudi. E sembra che il corpo come idea si prenda una rivincita su una cultura che vede la sua progressiva trasformazione in qualcosa di alieno, impalpabile, astratto. Nell’epoca in cui si affacciano all’orizzonte le potenzialità delle neuroscienze, e quindi la possibilità di spiegare i nostri comportamenti (anche) in base alle reazioni nervose che ognuno e ognuna di noi può avere a determinati stimoli, ecco che il cuore (una pompa) rivuole la sua parte; mentre si fa sempre più raffinata la capacità di leggere il nostro codice genetico (e forse anche la capacità di fare previsioni sui rischi di ammalarsi di questa o quella malattia – e qualcuno adombra l’ipotesi di poter fare figli scongiurando questa o quella ipotesi, costruendo cioè «a tavolino» l’individuo), ecco che i tessuti possono svelare (o nascondere) dei dettagli illuminanti: o forse no, ma intanto se ne parla.

La quotidianità, la «routine» della pratica sportiva agonistica e professionale è scandita dal rito dell’antidoping (e ogni tanto qualcuno scappa alle sue reti): chi frequenta gli stadi e gli sportivi sa c’è anche qualcosa di comicamente imbarazzante nel dover riattivare le funzioni renali dopo lo sforzo fisico di una partita ad alto livello, per poter procedere all’esame. Siamo fatti anche di questo. Ma siamo fatti anche di polvere: «sei polvere e in polvere ritornerai» (Genesi 3, 19), dice il Signora ad Adamo; ed è vero: solo che il tempo che ci vuole perché il povero corpo di un campione sofferto e sofferente ritorni polvere è maledettamente lungo. Qualcuno ancora ci lavora sopra (deve farlo, intendiamoci, se ha la notizia di un possibile reato), altri ci speculano, altri ancora ne soffrono. E forse questo corpo vorrebbe solo diventar polvere.

Foto: “Marco Pantani, 1997” by Hein Ciere – Wikiportrait. Licensed under CC BY 3.0 via Wikimedia Commons.