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Invertire i ruoli per combattere la disparità di genere

L’Italia è al 69° posto su 142 Paesi (ha guadagnato due posizioni rispetto al 2013) nella classifica mondiale sulla parità di genere, ma scende al 114° posto (dal 97° dello scorso anno) per quanto riguarda la partecipazione delle donne al settore economico e al 129° per la parità degli stipendi. Sono i dati appena pubblicati dal World economic forum (Wef) e non c’è certo rallegrarsi per quei due scalini rimontati dall’anno scorso, né tantomeno per l’ipotetico traguardo dell’effettiva parità, individuato nel 2095. 81 anni: anche a volerci credere, sono troppi, una beffa. Quindi, se tutto va bene (si fa per dire), della disuguaglianza soffriranno ancora le nostre figlie e le nostre nipoti. L’Italia perde tutte le scommesse sulle pari opportunità e scivola ancora più in basso nella lista dei Paesi insensibili alle discriminazioni di genere. Se guardiamo il mondo del lavoro, il tasso di impiego maschile fotografato dall’Istat nel luglio scorso è del 64,8% contro il 46,3% di quello femminile; al sud, poi, la disoccupazione supera il 50% fra le giovani e una donna su cinque resta a casa dopo un anno e mezzo dalla nascita del primo figlio. Incredibile? Non tanto: i servizi scarseggiano, gli asili chiudono, e chi si deve occupare di bambini e anziani? Se poi si aggiunge la crisi economica, è evidente che le prime a farne le spese sono le donne, anche se sono considerate una “risorsa e un valore aggiunto” per l’economia del Paese. Se in una coppia uno dei due – in mancanza di alternative o di sostegno familiare – deve lasciare il lavoro per badare ai figli, inutile chiedersi chi rinuncerà allo stipendio; anche perché, di nuovo, quasi sempre chi guadagna di più è l’uomo. Dunque è un circolo vizioso in cui le donne sono sempre più intrappolate. E questo, nonostante altri dati confermino – e lo sappiamo bene – che sono proprio le ragazze a ottenere i risultati migliori a scuola e all’università. Riassunto: sono più brave ma trovano meno lavoro dei loro colleghi maschi, sono pagate meno e rischiano di essere licenziate appena diventano madri.

Eppure la disuguaglianza non è una condanna “naturale”, ma una condizione sociale cui si può – si deve – fare fronte: certamente chiedendo a Governo e istituzioni di mettere in agenda come prioritari e accessibili i servizi alla famiglia ma anche liberando i generi dai ruoli a cui vengono inchiodati sin dalla più tenera età e contribuendo a smontare quel sottile ma persistente condizionamento culturale che vorrebbe le bambine più docili, più remissive, più passive, dunque destinate, di fatto, a una vita casalinga e di “supporto” all’uomo, oggi come ieri. Non è un’esagerazione: dalle analisi sui libri di testo della scuola primaria si è scoperto che le professioni ritenute adatte per i maschi sono 80 e quelle per le femmine soltanto 15 (indovinate quali? Mamma, maestra, ballerina, estetista…). Riconoscere e smontare i modelli culturali sessisti che limitano le scelte delle bambine non è facile: per questo l’educazione di genere, che in Italia incontra tante resistenze e che viene fatta solo in modo troppo sporadico e grazie all’intervento di alcune associazioni laiche, è fondamentale. L’otto per mille della Chiesa valdese, per esempio, ha finanziato la scorsa primavera “Gli adulti imparano, gli adulti insegnano la relazione fra uomini e donne”, un corso per genitori e insegnanti proposto dall’associazione ZeroViolenzaDonne, cinque incontri in quattro istituti comprensivi di altrettante periferie romane, proprio per contribuire a riconoscere e a combattere gli stereotipi nella scuola. Per cambiare i numeri del Wef non bisogna aspettare che riparta la crescita economica, bisogna innanzitutto modificare la prospettiva. Il mondo non è necessariamente rosa o azzurro e invertire i ruoli può essere rivoluzionario.

Foto via Flickr