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Gli Ogm tra bioetica ed etica economica

Nelle ultime settimane il tema degli Ogm è tornato alla ribalta, a seguito delle posizioni nettamente contrarie di Vandana Shiva, cui si è accodato Carlo Petrini, e all’ampio spazio che hanno ricevuto da parte dei principali mezzi di comunicazione. Purtroppo quanto detto è stato caratterizzato da pregiudizio, disinformazione e un certo antiscientismo di fondo che non contribuiscono a chiarire le reali problematiche legate agli Ogm.

Riepilogando, per Ogm si intende ogni organismo il cui patrimonio genetico sia stato modificato attraverso tecniche di ingegneria genetica; non rientrano nella definizione di Ogm eventuali mutanti ottenuti attraverso l’uso di agenti mutageni, né a maggior ragione organismi selezionati attraverso incroci programmati. La differenza principale, da un punto di vista tecnico, è legata al fatto che intervenendo attraverso gli incroci programmati, ho bisogno di lavorare per molte generazioni e su numeri molto alti, sperando di selezionare da una generazione all’altra organismi quanto più corrispondenti all’ideale che voglio raggiungere. L’utilizzo di agenti mutageni cerca di velocizzare questo processo; sottopongo all’agente mutageno un alto numero di semi, e tra quelli che sopravvivono cerco quelli che hanno sviluppato una proprietà che desidero. Raccontata così non ha l’aria di essere una tecnica particolarmente sicura, e in effetti non lo è: insieme alla proprietà che desidero (ad esempio, fusti più corti) l’agente mutageno può determinare la comparsa di caratteri indesiderati, e io non ho la benché minima possibilità di controllarla. La tecnologia del Dna ricombinante, invece, ci permette di inserire nel patrimonio genetico di un organismo uno e un solo specifico gene, che codifica per una proteina che vogliamo venga prodotta da quell’organismo. I tempi sono brevi, possiamo lavorare su un numero minore di organismi e non abbiamo il rischio che la nostra qualità desiderata se ne porti dietro altre che invece ci darebbero molto fastidio.

Per quanto riguarda gli aspetti ecologici e sanitari, è opportuno sottolineare che ad oggi non vi sono prove che gli Ogm d’uso agricolo possano essere dannosi per la salute, o siano necessariamente dannosi per l’ambiente. Di più, le loro caratteristiche organolettiche non sono significativamente diverse da quelle di organismi selezionati secondo metodi tradizionali. Un’altra accusa di cui sono oggetto gli Ogm è quella di contribuire alla perdita di una gran parte della diversità nelle piante alimentari di un’area; tuttavia il concetto di monocoltura, con la scomparsa delle varietà locali e l’omogeneizzazione delle colture, è ben precedente a quello di Ogm. L’uso degli Ogm in un’ottica di monocoltura non è necessitato, ma dipende dal fatto che ad oggi la monocoltura è il paradigma produttivo prevalente.

Questo non significa che gli Ogm siano la soluzione ai mali del mondo – hanno qualche applicazione interessante, ma sono ben lungi dal risolvere il problema della fame nel mondo, che peraltro sembra aver carattere principalmente socio-economico. Come socio-economiche sono le problematiche reali aperte dagli Ogm, che influiscono non tanto sulla “sovranità alimentare” invocata da Petrini, quanto sull’economia di interi stati. Gran parte dei prodotti Ogm sono infatti brevettati da multinazionali, che impongono pesanti royalties sulle sementi; a fronte di alcuni vantaggi immediati derivanti dall’uso di queste varietà, il coltivatore tende a diventare dipendente della multinazionale. Tuttavia alcuni Stati si sono opposti a queste royalties, ad esempio garantendo il diritto del coltivatore a riprodurre il seme in proprio, e non doversi rifornire ogni anno dalla multinazionale. Per qualche strano motivo, una buona parte della critica tende a incentrarsi su chi studia gli Ogm e testa le loro potenzialità applicative, ed evita di pretendere dalle multinazionali il rispetto di standard etici ed agli stati il loro controllo – il che metterebbe in discussione uno dei punti cardine del capitalismo: la completa libertà di manovra dell’investitore. È chiaro che appare più semplice, ancorché meno risolutivo, pretendere una moratoria totale su ricerca e tecnologie del Dna ricombinante in agricoltura.

È vero, se gli Ogm non esistessero non avremmo questi problemi, ma giacché esistono potrebbe essere più proficuo incrementare gli investimenti statali alla ricerca indipendente, piuttosto che proibire sulla base di posizioni viscerali e poco sostanziate non solo la commercializzazione, ma anche la sperimentazione sugli Ogm – mentre nel frattempo, e all’italiana, i nostri allevamenti si reggono su mangimi Ogm che a norma di legge non possiamo produrre ma possiamo importare.

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