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L’Italia condannata per i respingimenti collettivi

La Corte Europea per i Diritti Umani (Cedu), ha condannato l’Italia per le espulsioni collettive verso la Grecia nel 2008 e 2009, in particolare di 32 persone provenienti da Afghanistan, Sudan ed Eritrea. La Corte ha ribadito che il respingimento collettivo è illegittimo anche verso Paesi membri dell’Unione. Inoltre in quel periodo la Grecia aveva un sistema di accoglienza arretrato e i profughi rischiavano di essere maltrattati e torturati.

Abbiamo parlato di questa sentenza con Chiara Favilli, docente di Diritto dell’Unione europea, esperta di politiche europee di immigrazione e asilo, e membro della rete europea di esperti indipendenti sulla non discriminazione.

Perché è importante questa sentenza?

«È una sentenza con la quale la Cedu ribadisce un principio che aveva già espresso in altri casi, cioè che non possono esservi mai allontanamenti sommari e collettivi, che siano respingimenti o espulsioni. Soprattutto verso Paesi dove c’è il rischio che la persona subisca un trattamento inumano o degradante. Il principio è che gli Stati devono esaminare la situazione di ciascuna persona, caso per caso, e verificare se la persona è un richiedente asilo o pure no, se ci sono altri rischi di subire una violazione di altri diritti, e applicare il trattamento più adeguato, che sia l’accoglienza o l’espulsione».

Le associazioni e gli avvocati che hanno aiutato i profughi a fare ricorso hanno detto che è stato indispensabile partire dal basso, perché?

«Le persone respinte possono fare ricorso alla Corte anche dall’esterno dell’Ue, ma difficilmente hanno gli strumenti per farlo. Se si è venuti a conoscenza di casi come questo è stato grazie ad avvocati o associazioni che sono riusciti a prendere contatto con le persone respinte. Questo è un punto importante: normalmente le associazioni non hanno una legittimazione ad agire in giudizio, non possono ricorrere ad un giudice perché occorre sempre che ci sia una vittima; questo vale sempre, anche nel nostro ordinamento. Per i ricorsi alla Corte europea è lo stesso, e possono essere sostenute – questo sì – da varie associazioni ma devono partire dalla vittima. Inoltre, i ricorsi alla Cedu, si possono presentare solo previo esaurimento dei ricorsi interni: prima bisogna ricorrere ai vari gradi di giudizio italiani, per esempio, e solo dopo, se non si ha avuto soddisfazione, alla Corte Europea».

Perché queste persone sono riuscite a farlo?

«Perché la Corte ci dice anche che questi ricorsi devono essere effettivi. Le persone devono avere un rimedio sulla carta, ma anche l’effettiva possibilità di esperirlo: in questo caso fare ricorso in Italia dalla Grecia o dalla Siria è molto difficile, quasi impossibile. L’accesso alla giustizia è un punto fondamentale per chiunque: più il soggetto è debole, più l’accesso alla giustizia è nodale per la tutela dei diritti».

Come leggiamo questa notizia al tramonto di Mare Nostrum e allavvio di Triton nel mediterraneo?

«I collegamenti esistono, la Corte Europea lo ha ribadito, sa che gli Stati di confine sono di fronte a pressione enormi, un altro motivo per sottolineare l’importanza di questa sentenza. Ci pone di fronte ad un dubbio sulle operazioni di pattugliamento e controllo rafforzato, perché dobbiamo sapere quali possono essere le conseguenze. Frontex partirà dal 1 di novembre, e ci sarà bisogno, accanto al pattugliamento, di operazioni di assistenza. Il ministro Alfano lo sa e non lo ha negato: ha specificato che le operazioni di assistenza e ricerca in mare continueranno. Le operazioni di salvataggio c’erano anche prima di Mare Nostrum. Gli Stati non possono esimersi dalla salvaguardia delle vite in mare. Va ancora capito con quali forze questo avverrà: sono 29 gli Stati che hanno aderito a Triton, vedremo che tipo di mezzi metteranno a disposizione e come l’Italia sarà complementare a questa operazione».  

Sul tema segnaliamo il rapporto Porti insicuri del 2013 a cura di Medici per i diritti umani
Foto di Paolo Martino via Melting Pot