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Il giovane che vedeva troppo avanti

Per cogliere gli accenti più evocativi del film di Mario Martone «Il giovane favoloso», bisognerebbe ascoltare il cd pubblicato nel 1998 da una rivista periodica, che contiene i più celebri «Canti» leopardiani letti da Arnoldo Foà. Il decano degli attori italiani, scomparso lo scorso gennaio, dava una lettura inaspettata di quei testi così celebri e celebrati, fino alla noia proposti agli studenti con il condimento di commenti a volte banalizzanti: una lettura piana, discorsiva, affatto enfatica, perché il contenuto espressivo dei «Canti» è di per sé evocativo, ed essi non richiedono enfasi, anzi richiedono un atteggiamento «amichevole» da parte di chi legge e di chi ascolta.

Ecco, questo era il tono che forse Leopardi ha vanamente inseguito per tutta la sua (breve) vita: il Leopardi interpretato da Elio Germano per il film Martone vive, anzi sopravvive a se stesso, proprio nell’impossibilità di un dialogo disteso e confortevole con chi gli sta attorno e con l’ambiente che lo circonda. Non è, e non può essere, affettivamente coinvolgente il rapporto con un padre immerso nell’astrattezza degli studi, creatore di una biblioteca straordinariamente utile alla formazione dei figli quanto distruttiva della loro infanzia e adolescenza; la madre, così come è descritta, chiunque la vorrebbe dimenticare, anche il vicino di casa, a cui muore la figlia che dalla finestra portava un raggio di luce a Giacomo, e che si sente dire da questa donna tutta fede: è un giorno di gioia quello in cui qualcuno raggiunge Dio.

Ma anche con la natura, che il poeta ha cantato con toni inarrivabili, Giacomo non ha un rapporto accettabile: non solo perché, come emerge dal «Canto notturno di un pastore errante dell’Asia» e dal «Dialogo della Natura e di un Islandese», essa si presenta ostile nella visione filosofica del recanatese (sulle differenze di visione tra Leopardi e il Manzoni «vicino» a una visione protestante, che considera cioè l’origine del Male più nell’uomo che nella natura, ha molto ben scritto Sergio Givone nel suo libro «Metafisica della peste», Einaudi 2012); nell’invenzione cinematografica di Martone sono gli stessi ambienti, i paesaggi in cui il giovane Giacomo trasmigra ogni volta che riesce ad allontanarsi dalla prigione parentale, a risultargli estranei, pur essendo oggetto dei suoi versi. Qualunque regista di film d’amore o d’avventura si sarebbe premurato di far tagliare il manto «all’inglese», perché facesse da sfondo e non disturbasse lo svolgimento dell’azione. Invece qui i boschi sono disordinati, l’erba è alta, gli sterpi non hanno niente di evocativo, gli intrecci fra i rami si presentano come in effetti sono nella realtà: casuali e privi di senso (fatta salva l’anima biologica della pianta) agli occhi umani. In genere il paesaggio di sfondo precede l’arrivo di Giacomo, che si staglia come una «silhouette», ma sempre estraneo.

Giacomo trovava dentro di sé il senso che mancava alla Natura. Ma dando un senso alla Natura, il giovane poeta perdeva il senso del suo vivere con gli altri. I suoi incontri sono quasi sempre sconfitte: a parte l’impossibilità di avere a che fare con l’altro sesso (l’aspetto non sbagliato ma più scontato del film), anche le presunte amicizie (salvo quella con Antonio Ranieri che, letteralmente, se lo carica sulle spalle come Enea con il padre Anchise, quando Giacomo non riesce a salir le scale) sono tutte strumentalmente concepite dagli interlocutori, sono vacue, accendono nel giovane speranze destinate al nulla. Il circolo fiorentino dei liberali, fra cui spicca uno sprezzante Niccolò Tommaseo, riduce all’ambito politico la considerazione di un poeta mai cresciuto come uomo.

Questa è la condanna di Giacomo: interiormente, fisicamente, sentimentalmente mai compiuto, vede con la mente troppo avanti. E vedere avanti significa anche mettere sul gradino più alto dei concetti quello del dubbio. Ovvio che l’ambiente bigotto di famiglia e di Recanati gli andasse stretto fin dall’adolescenza. Ma ovvio anche che i «progressisti» non potessero accompagnare la sua ansia di senso e di infinito, destinata a non mai risolversi. Non cambia la situazione essere a Firenze o a Roma o a Napoli. Il destino di questo giovane uomo troppo geniale è di saper contemplare e saper interpretare la realtà, senza credere in Dio e ponendo dei grandi limiti alla ragione umana. Così egli diventò un moderno, un uomo che si scopre non adeguato (Kafka arriverà solo un secolo dopo …), che trova un senso universale in uno sguardo dentro di sé, provvisoriamente collocato al di là di una brutta siepe su un colle anonimo come tanti altri. Ma sempre senza lasciarsi coinvolgere dalla realtà stessa: fosse andata diversamente saremmo stati privati di un eccelso poeta e pensatore, e Giacomo sarebbe stato più felice.