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Laïcité inshallah

Laïcité, inshallah: un ossimoro, un gioco di parole che può aiutare a comprendere la sfida, la fatica e lo spirito (persino scanzonato e allegro, nonostante gli argomenti in discussione) nel quale si è dipanato a Londra l’11 e 12 ottobre scorso l’eccezionale appuntamento della Secular Conference, assise internazionale per la laicità in Europa e nel mondo. Organizzata con tenacia e in grande spolvero (l’accesso ai due giorni, più cena, pranzo, coffee break e cocktail costava 150/180 sterline, che non è poco) l’occasione è stata un successo: le attiviste e intellettuali Maryam Namazie e Marieme Helie Lucas, donne di temperamento assai diverso ma di pari determinazione e preparazione alle quali si deve l’evento, hanno portato a Londra oltre 30 esponenti di spicco della cultura e dell’impegno antifondamentalista, dall’Europa ma non solo, e la partecipazione di oltre 300 persone.

Va da sé che la parte da leone l’ha fatta la totale e assoluta presa di distanza dall’islamismo del terrore, ma la critica e la preoccupazione non ha risparmiato nessuna delle altre religioni, né quella parte di sinistra e di pensiero liberal che, nel nome di un confuso anticapitalismo e antiamericanismo, o per spirito di “tolleranza multiculturale” continuano a difendere l’islam e il suo uso politico.

In tutti gli interventi, fino a quello conclusivo in cui è stato approvato per acclamazione il Manifesto per la laicità, questo è stato il concetto comune: battersi per la laicità non significa essere contro la fede individuale e la spiritualità umana, ma costruire uno spazio pubblico nel quale nessuna religione diventi legge o detti legge nelle relazioni umane, individuali e sociali.

L’allarme più pressante sul diffondersi del fanatismo viene dalla giovane educatrice e blogger Nahla Mahmoud, di origine sudanese, autodefinitasi ex muslim. «Molto sappiamo sulle leggi che puniscono l’omofobia e la repressione dei diritti civili e delle donne nei paesi islamici. Ma dobbiamo sapere che il problema lo abbiamo anche qui, non in Siria o in Iran, qui in Gran Bretagna – ha detto- Se avalliamo la visione multiculturale che consente, per esempio, il doppio registro legale (Inghilterra e Canada hanno già autorizzato tribunali della shaaria) perderemo le generazioni odierne di ragazzi e ragazze, che hanno cittadinanza inglese ed europea, e che rischiano di essere manipolati e attratti nelle spire della violenza islamista. C’è chi parla di ‘scelta’, per paura di essere tacciato di islamofobia, in materia di velo, di matrimoni combinati o per la segregazione scolastica femminile, ma la verità è che il 40% dei giovani in età scolare di origine musulmana, interrogati sul reato di blasfemia, hanno optato per la pena di morte. Qui, non in Pakistan».

Nahla, ma anche Namazie, Helie Lucas, Caroline Fourest, usano la stessa metafora per criticare il multiculturalismo. Sono comode scatole – dicono – nelle quali si fa in fretta a sistemare le persone, a seconda del loro colore di pelle, sesso e provenienza geografica, creando enclaves dove si nega l’universalità dei diritti. Il filosofo columnist del Guardian AC Graylins ha insistito sul fatto che il pericolo dell’educazione religiosa «non sta nel voler educare, ma nel pretendere di educare a cosa pensare: l’educazione dovrebbe insegnare a pensare, punto».

Marieme Helie Lucas, più volte invitata e pubblicata da Marea in Italia ribadisce l’uso dannoso delle “differenze” culturali per giustificare la negazione dell’universalismo dei diritti. «Siamo vittime dell’essenzialismo e del relativismo se reclamiamo diritti diversi su base religiosa, anche quando vogliamo difendere “i diversi” nel nome delle culture identitarie».

Taj Hargey dirige una moschea e più volte è stato attaccato dagli islamisti: «In una democrazia – ha scandito – non è ammissibile che esistano comunità che attribuiscono doveri diversi per cittadinanza, sesso o orientamento su base identitaria e religiosa. Come permettere che si autorizzino, in nome della “tolleranza”, umiliazioni come il burka o il niqab?».

Sue Cox, attivista femminista inglese che si occupa di violenza domestica, apre una finestra sugli abusi dei sacerdoti cattolici. «Quando vedete l’immagine sorridente del papa fate attenzione: non credete a quello che vedete, perché quello che vedete non è ciò che avrete». Sultana Kamal, avvocata del Bangladesh, ha raccontato il difficile percorso del suo paese nel costruire la democrazia laica, fronteggiando il regime del vicino Pakistan: «Riconosciamo il secolarismo come una delle basi della nostra cultura. Ma sappiamo che il patriarcato e il fondamentalismo lavorano insieme contro i diritti universali, in particolare contro le donne». L’artefice dell’ossimoro iniziale, Nadia El Fani, filmaker tunisina autrice di Laicitè Inshallah, mostra nel suo film gli studenti islamici che interrompono con la violenza convegni, commedie e momenti artistici. «I nostri sono islamisti intelligenti -dice- hanno denaro, usano i social media e raggiungono i giovani. Non vogliono la democrazia: usano la democrazia per costruire la teocrazia. Dite ai giovani che possono credere nel paradiso, ma che è una menzogna se sulla terra c’è un mondo ingiusto, come quello che, chi crede nel paradiso, realizza brandendo dio».

Tutti gli interventi sono al sito secularconference.com

Foto via secularconference.com