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Affari di famiglia

E’ ancora un giudizio in corso d’opera ma è innegabile che, pur con le dovute cautele e nella speranza di non essere smentiti sabato prossimo quando si concluderà l’assise dei vescovi, la discussione del Sinodo sulla famiglia sta segnando alcune importanti novità. L’impressione è che i lavori si stiano svolgendo in un’atmosfera di confronto aperto, con l’intenzione di affrontare la concretezza della vita familiare così com’è sperimentata dalle persone in carne ed ossa. Questo emerge in diversi punti della Relatio post disceptationem, redatta dal cardinale Peter Erdö per fare il punto sul dibattito fin qui svolto. La relazione esprime la necessità di pronunciare una «parola di speranza e di senso», e di «accogliere le persone con la loro esistenza concreta». Questo indubbiamente riflette un tratto fondamentale del pontificato di Francesco: mettere in primo piano le persone, che vanno guardate attraverso lo sguardo di Cristo, con le loro storie e la loro umanità, e solo dopo parlare di principi e di normative.

Ciò che emerge con gran rilevanza dal dibattito sinodale è l’ammissione che anche unioni diverse dal matrimonio sacramentale possano contenere al loro interno alcuni elementi costitutivi di quest’ultimo, che vanno riconosciuti ed evidenziati. Anche nei matrimoni civili e nelle convivenze si riscontrano unioni stabili, affetto profondo responsabilità genitoriale, capacità di resistere nelle prove: «semi del Verbo sparsi oltre i confini visibili e sacramentali» della chiesa. Sulle persone divorziate si nota una grande attenzione pastorale, mentre sulla questione dell’eucaristia ai divorziati risposati mi sembra che il documento si limiti prudentemente a elencare le posizioni pro e contro. Nelle sue pagine finali, poi, il testo afferma che le persone omosessuali «hanno doti e qualità da offrire alla comunità cristiana» e ciò rappresenta una sfida per la capacità di accoglienza della Chiesa stessa. Inoltre le unioni di persone dello stesso sesso sono portatrici di «mutuo sostegno fino al sacrifico… appoggio prezioso per la vita dei partner».

Tutte queste rilevanti affermazioni, fino ad oggi mai sentite con la stessa autorevolezza in contesti ufficiali, sono state possibili non solo dall’osservazione della vita concreta, ma anche in analogia con quanto scritto nella Lumen Gentium, la costituzione dogmatica del Concilio Vaticano II esplicitamente citata nella Relatio. In essa si afferma che sebbene «l’unica Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica”, tuttavia anche «al di fuori del suo organismo si trovano parecchi elementi di santificazione e di verità». Per analogia, fermo restando la «pienezza sacramentale del matrimonio» è tuttavia possibile riconoscere «elementi positivi» anche nelle altre forme di unione. A suo tempo le affermazioni della Lumen Gentium generarono non solo speranza ma addirittura ottimismo capace di generare frutti abbondanti nell’ambito delle relazioni ecumeniche. Tuttavia – lo vorrei ricordare – è anche e proprio in base a quelle stesse parole che ormai da decenni le chiese protestanti sono inchiodate, nella visione teologica cattolica, al loro status di “non chiese”: ricche di elementi evangelici ma costantemente mancanti della pienezza necessaria per essere definite chiese. Così la relazione del Sinodo, nel definire le unioni diverse da quella sancita dal sacramento del matrimonio – «il matrimonio naturale» – continua a usare il linguaggio della mancanza e dell’incompletezza, parlando di «forme imperfette», limitate e insufficienti. Si tratta di venialità, di elementi secondari e trascurabili rispetto alle innegabili aperture che la discussione del Sinodo ha dischiuso? In parte lo potremo già capire meglio dal documento finale di sabato prossimo, dalla discussione che si aprirà nelle chiese locali e dalle decisione che nell’ottobre dell’anno prossimo prenderà l’Assemblea generale ordinaria verso la quale questo Sinodo è orientato.

Foto via Flickr