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Leggere Kafka con i Salmi

Tra giugno e luglio del 1914 l’Europa si risvegliò da un lungo sonno, rappresentato dal consolidamento dei suoi assetti precedenti: economici, politici, culturali. La Prima Guerra mondiale portò alla luce un soqquadro che da tempo covava sottotraccia fra i popoli, ma anche un sottobosco su cui da tempo studiosi di varie discipline appuntavano i loro lavori. Per limitarci al caso forse più famoso: nel 1898 Freud dava alle stampe L’interpretazione dei sogni. Ma, come i sogni e l’inconscio appartengono a una zona oscura, che tendiamo a nascondere come le briciole sotto il tappeto, così quella che sembrava un’Europa di progresso andava verso il proprio sconvolgimento. 

Ma proviamo a leggere altri due «risvegli», le prime righe di due testi giustamente celebri: «Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato». E ancora: «Gregorio Samsa, svegliandosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo». I due testi, che dobbiamo a Franz Kafka, sono abbastanza vicini per composizione: La metamorfosi, forse il più celebre dei suoi racconti, fu pubblicato nel 1915, mentre al primo testo, le prime righe del Processo, l’autore boemo iniziò a lavorare cent’anni fa, nel 1914, l’anno simbolico, e al tempo stesso tragicamente reale, del conflitto mondiale.

La considerazione per queste due pietre miliari della letteratura novecentesca ci viene suggerita dall’attenzione che la Fiera del libro di Francoforte (la Buchmesse) che si apre l’8 ottobre dedica a Kafka: i cent’anni delle prime pagine del Processo coincidono fra l’altro con i 90 dalla morte dell’autore stesso e per l’occasione esce in Germania un’importante biografia della sua giovinezza: l’autore Reiner Stach presenta infatti in una serie di incontri giornalieri i tratti salienti del suo Kafka. Die Frühen Jahre dedicata agli anni giovanili, nei quali sarebbero da rintracciare le motivazioni che spinsero il giovane impiegato di una società di assicurazioni a diventare uno scrittore eccelso. In particolare a Kafka si attribuisce il merito di aver prefigurato un mondo in cui ognuno sarebbe stato «controllato» da un’entità invisibile.

Non è però sull’allegoria fantapolitica (indagata anche da altri, Aldous Huxley, George Orwell, Philip K. Dick e moltissima fantascienza) che vogliamo appuntarci: con troppa facilità la pubblicistica si è impadronita di lui dando luogo a superficiali stereotipi: l’orrido, l’assurdo, tutto ciò che poi si è riassunto, banalmente, con l’aggettivo «kafkiano», dotato oltretutto di una «i» abusiva. In Italia poi si è collegata l’indagine di Kafka sulle pieghe del potere e sull’incapacità umana di spiegarselo alla fantasia immaginifica di Dino Buzzati: un accostamento stolido, che non ha reso giustizia né all’uno né all’altro (anzi, volgarmente si accusò Buzzati di aver copiato alcuni racconti da Kafka).
Le operazioni condotte dai due scrittori sono diversissime: Buzzati, bellunese, ateo ma pieno di tensione religiosa cattolica, amante delle sue montagne e della natura, muove dalla realtà concreta (spesso, il paesaggio tradotto in immagini letterarie) per fantasticare e investigare i sentimenti, le paure, le aspirazioni. Kafka, boemo di cultura ebraica e che scrive in tedesco, muove dal ragionamento, dall’analisi di una realtà che non racconta in anticipo; ci sprofonda in quelli che sembrano incubi (abbiamo trascritto, appunto, dei «risvegli») per farci capire che la realtà è un’altra da quella a cui eravamo abituati: non tutta spiegabile. Ma soprattutto con quella realtà cambia la percezione che abbiamo di noi stessi. È quanto la psicoanalisi ma anche molta scienza stavano cominciando a spiegare. E quando ci si rivela qualcosa su noi stessi, capita che ci facciamo paura. Gli eventi successivi avvalorarono tragicamente questa paura.

La letteratura, poi, non ha potuto prescindere da Kafka: se la narrativa tradizionale, il grande romanzo ottocentesco, portava il lettore a identificarsi con i protagonisti, specie se questi narravano in prima persona, ciò non è più possibile dopo La metamorfosi: l’ha detto molto bene uno scrittore (e scienziato) nostro contemporaneo, Daniele Del Giudice: «Col Novecento l’identificazione non è più coi personaggi ma con l’autore: difficilmente potremmo risvegliarci trasformati in bacarozzo». L’identificazione avviene «con il modo in cui quella voce si dispone tra linguaggio e “realtà”» (In questa luce, Einaudi, 2013).

Non è tutto: a noi Kafka parla in maniera particolare, ulteriore. Imbevuto della cultura del suo popolo (alcuni hanno addirittura indagato i suoi studi cabalistici), adotta, proprio in questa formula del «risveglio», del non riconoscersi per quello che si è, un linguaggio profondamente intriso di Bibbia. I profeti e i Salmi ci propongono spesso una visione del mattino come «nuovo inizio»: «Quanto a me, per la mia giustizia, contemplerò il tuo volto; mi sazierò, al mio risveglio, della tua presenza» (Salmo 17, 15). Ma guardiamo che cosa dice il 102: «A forza di piangere la mia pelle si attacca alle ossa. Sono simile al pellicano del deserto (…) Mangio cenere invece di pane» (vv. 5, 6, 9). Certo, una preghiera in forma musicale si esprime in prima persona per dire il proprio sconforto. Se la tesi di Del Giudice è valida, uno dei grandi meriti di Kafka fu quello di farci capire che nella nostra epoca (il Novecento, come la modernità, non è ancora finito) a volte non riusciamo a cantare la nostra sofferenza, ma qualcuno deve farsene carico. La sofferenza di Gregorio Samsa è raccontata con pagine stralunate, che mettono in rilievo le reazioni dei congiunti di fronte a una anomalia del personaggio o di fronte al suo disagio: all’epoca, il salmista poteva cantare: «Me ne vado come ombra che si allunga, sono cacciato via come una cavalletta» (109, 23). Ma il salmista, per triste che fosse la sua sorte, cantava il proprio dramma per poi invocare, fiducioso, il suo Signore. Noi, oggi, stentiamo un po’ ad avere altrettanta fiducia.