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A prova di morte

Un paio di settimane fa è morto un mio contatto di twitter, una docente della Normale di Pisa. Lei seguiva me e io seguivo lei. Non la conoscevo di persona, ma le ero affezionato. Mi piaceva quello che scriveva e ogni tanto interagivamo. Stima reciproca (immeritata la sua nei miei confronti).

Il giorno in cui è morta, i suoi follower hanno cominciato a ritwittare i suoi commenti più arguti e intelligenti: così sono venuto a sapere del suo decesso.

Non sapevo come reagire. Non la conoscevo di persona, non conoscevo il suono della sua voce, però conoscevo il suo pensiero, il suo modo di ragionare e mi piaceva. Ho provato un senso di mancanza, autentico e non virtuale. Ho pensato che il mondo era un po’ più povero senza di lei. Il mondo? Sicuramente il mio mondo, come il suo geniale nick @m_mon_do: Maria Monica Donato.

La morte in rete, il funerale virtuale, il dolore 2.0. Cosa strana ed estraniante, ma soprattutto senza un’etichetta chiara. Nei funerali in chiesa è d’obbligo l’abito scuro e anche l’esternazione del dolore ha le sue regole. Ma su internet come ci si deve comportare?

Ad esempio, ha senso mantenere “in vita” i profili facebook di persone decedute? Ha senso riempire le loro bacheche di messaggi di auguri di compleanno? Non sono in grado di dare una risposta, ma il problema dovrebbe porsi.

Non entriamo nell’emozione collettiva, spesso patologica, della morte delle persone famose su internet. Ci aveva riflettuto un anno fa la satira del fumettista romano Zerocalcare, mostrando che la questione della morte su internet può essere molto controversa e raggiungere toni e linguaggi non proprio da funerale.