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32 anni fa la mafia uccideva Carlo Alberto Dalla Chiesa

Sono trascorsi trentadue anni da quando alle ore 21:15 del 3 settembre 1982, il Gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa e sua moglie Emanuela Setti Carraro furono trucidati a bordo della A112 da un commando di Cosa Nostra. Con loro trovò la morte anche l’agente Domenico Russo. Esecutori materiali della strage furono Antonino Madonia e Calogero Ganci. Qualche mese prima di giungere a Palermo, nell’aprile del 1982 Dalla Chiesa scrive al presidente del Consiglio Giovanni Spadolini queste parole: «La corrente democristiana siciliana facente capo ad Andreotti sarebbe stata la “famiglia politica” più inquinata da contaminazioni mafiose». Dalla Chiesa era sulla strada giusta.

La solitudine
Dalla Chiesa fu inviato a Palermo come Prefetto, con l’obiettivo di sconfiggere la mafia, a cui però non furono mai concessi i poteri, gli strumenti richiesti al Governo per vincerla nell’interesse dello Stato. Nella celebre intervista rilasciata a Giorgio Bocca nell’agosto dell’82 ebbe a dire: «Un uomo viene colpito quando viene lasciato solo». Questo il dramma. La solitudine di chi resta fedele, non si rassegna e decide di resistere nell’adempiere il proprio dovere, rappresentando quello Stato che fece maturare il clima di solitudine in cui visse.

I mandati dell’omicidio
Tra i mandanti ci sono i nomi di Provenzano e Riina. Quest’ultimo è attualmente detenuto a regime di 41 bis negli Istituti Penitenziari di Parma, ed entrambi sono presenti anche nel contesto di quella situazione drammaticamente complessa chiamata “trattativa tra lo Stato e la Mafia”, di cui si conosce ancora molto poco. Dov’è lo Stato? Quando muovi i primi passi nella conoscenza della cultura mafiosa, sembra essere questo il soliloquio amletico che si infrange con violenza nelle vite spezzate, urlato dignitosamente dai racconti dei familiari delle vittime di mafia, molti ancora in attesa di giustizia e verità. È quanto mai evidente, contiguo, tangibile, come «la mafia è cauta, lenta, ti misura, ti ascolta, ti verifica alla lontana» (Gen. Dalla Chiesa), come tale fenomeno vada conosciuto perché aggredisce la dignità, metastasi della vita democratica di tutti, indistintamente: dal piano individuale a quello sociale, dal politico all’economico-finanziario. Lo stesso Gen. Dalla Chiesa ebbe a ribadire più volte come la conoscenza globale e dettagliata del fenomeno mafioso sia il punto centrale da cui attivare le diverse forme di contrasto, con radicalità e convinzione.

La mafia ha paura
La medesima radicalità e convinzione che hanno portato don Luigi Ciotti ad essere uno dei testimoni del contrasto alle mafie. Non da solo, ma costruendo insieme a molti negli anni la rete di Libera, nomi, numeri, associazioni contro le mafie, promuovendo la Legge 109/96. Era infatti il 7 marzo 1996 quando si dava attuazione alla normativa in materia di riutilizzo sociale dei beni confiscati alle organizzazioni criminali: un traguardo raggiunto grazie a un milione di firme raccolte in seguito a una petizione popolare lanciata proprio dall’associazione contro le mafie, fondata l’anno prima. È questo ciò che temono gli esponenti della mafia. Lo ribadisce Riina nell’intercettazione datata 14 settembre 2013, venuta alla luce solamente qualche giorno fa e di cui lo stesso don Ciotti non sapeva nulla. Totò “u curtu”, all’epoca dei fatti era detenuto presso il carcere di Opera e, volgendosi al suo “compagno d’aria” Alberto Lorusso, boss della Sacra Corona Unita, ribadisce «Ciotti, Ciotti, putissimo pure ammazzarlo… Sono preoccupato… Sai con tutti i sequestri di questi beni…». Luigi non è solo.

Fedeltà al Vangelo
Il suo impegno, ha affermato in un’intervista, «è un atto di fedeltà al Vangelo». Gli fanno eco le parole di solidale vicinanza del Moderatore della Tavola Valdese, il pastore Eugenio Bernardini: «testimone coraggioso di un’azione che colpisce gli interessi ma anche l’immagine arrogante e sicura di chi sfrutta, uccide e corrompe. Don Ciotti è minacciato – prosegue il moderatore – perché la sua azione è più efficace di tanti discorsi retorici e vaghi sulla lotta alle mafie e perché l’azione di educazione alla legalità che egli porta avanti fa breccia nel cuor di tante persone un tempo complici, silenziose o distratte. Il messaggio evangelico di speranza e liberazione – conclude Bernardini – ha bisogno di testimoni coraggiosi che meritano certamente la protezione dello Stato ma anche il sostegno materiale e spirituale della comunità dei valdesi e dei metodisti italiani».

È questa una delle basi cardine su cui potrà erigersi e strutturarsi l’altro volto dello Stato, quello migliore, quello che possiamo volere e costruire insieme, impegnati nell’essere un NOI, «costruttori per la giustizia e la dignità nel nostro Paese» (L. Ciotti).

Immagine copertina:”DallaChiesa“. Tramite Wikipedia.