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Giulia Gonzaga

Tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna, dopo il tramonto dei liberi Comuni narrati da Sismondi1, si consolida in Italia un certo numero di Stati medio-piccoli che vivacchiano all’ombra prima dell’Impero germanico e poi del Regno di Spagna (non senza qualche tentazione in direzione francese): essi attirano, certo, i protagonisti del Rinascimento, ma hanno in realtà due sole possibilità di sopravvivenza: la prima consiste nel mandare i loro figli a rischiare (e spesso a perdere) la vita come «condottieri» dei grandi eserciti; la seconda si incarna in una avveduta «strategia matrimoniale». Questo è il caso anche del ducato di Mantova, dominato per secoli dalla dinastia dei Gonzaga: si tratta, invero, di una dinastia un po’ frastagliata: il ramo principale governa la città di Mantova e i suoi immediati dintorni, e i rami cadetti devono accontentarsi di gestire piccoli territori periferici.

Da uno di questi rami secondari nasce nel 1513 Giulia Gonzaga: suo padre Lodovico è signore di Gazzuolo (e poi di Sabbioneta) ma sua madre (Antonia del Balzo) è figlia dell’alta nobiltà napoletana e conduce una spietata strategia matrimoniale: e così la povera (e bellissima, e intelligentissima) Giulia all’età di tredici anni si trova sposata con un vedovo quarantenne: Vespasiano dei Colonna di Gennazzano. Questo ramo della temuta famiglia romana dispone di ampi domini ai confini tra lo Stato della Chiesa e il Reame di Napoli. Così, quando Vespasiano muore senza neanche aver consumato il matrimonio, la giovanissima Giulia si trova a dover governare la contea di Fondi, una sorta di stato-cuscinetto situato a metà strada tra Roma e Napoli.

Ma Giulia è degna figlia di Antonia del Balzo, si orienta subito verso Napoli, e entra perfino a far parte della «corte» del terribile vicerè spagnolo Pedro de Toledo. Uno spietato pettegolezzo ecclesiastico le attribuisce un flirt con il giovane cardinale Ippolito de’ Medici, ma Giulia custodisce la propria verginità e stabilisce la sua dimora in un convento sito in quello che oggi è il gran centro di Napoli. E a Napoli si svolge quello che è l’incontro decisivo della sua vita spirituale: Juan de Valdés è protetto da Carlo V, ma ha dovuto lasciare la Spagna perché il suo Dialogo della Dottrina Cristiana è stato condannato da quelle autorità ecclesiastiche (e politiche).

In realtà Juan de Valdés non è affatto protestante: è l’alfiere di una profonda e sincera spiritualità cristiana che tenta di avviare una forma – diciamo così – omeopatica di rinnovamento della Chiesa, lontana dagli intrighi romani quanto dalle rotture di stampo luterano, zwingliano, e poi calvinista. Gli amici napoletani (e poi italiani) di Juan de Valdés sono però gente aperta: sentono che nell’Europa centrale (e poi in Inghilterra) si è messo in moto un meccanismo destinato a mutare il corso della storia: passano da Napoli futuri riformatori come Bernardino Ochino (che finirà anabattista non molto trinitario) e Pietro Martire Vermigli (che darà un contributo decisivo all’edificazione della Chiesa anglicana). Ci sono poi a Napoli dei valdesiani che diventano protestanti e affrontano serenamente il rogo (1564) come Giovanni Francesco Alois e Giovanni Bernardino Gargano: il popolino è meno sereno, e si ribella contro il vicerè come aveva fatto al momento dell’introduzione dell’Inquisizione di Spagna (1547): nei due casi, il vicerè risponde a fucilate, anzi, a cannonate. Altri protestanti scelgono la via dell’esilio: sono Galeazzo Caracciolo marchese di Vico, futuro leader della chiesa italiana di Ginevra, Scipione Lentolo, futuro storico della Chiesa valdese, e molti altri.

In realtà, di valdesiani e di protestanti è piena l’Italia, da Venezia alla Sicilia, passando per Mantova e Firenze. Con tutte queste persone, Giulia Gonzaga riesce a restare in collegamento. Si tratta, è vero, di una rete clandestina, ma Giulia è perfino in grado di sostenere finanziariamente una Isabella Bresegna che, come molti altri evangelici, si è rifugiata a Chiavenna sotto la protezione dei Cantoni protestanti. Mentre rischia la pelle, Giulia continua metodicamente a tessere la rete dei «matrimoni Gonzaga», così importanti per l’avvenire del suo lignaggio.

Da molto tempo, però, Giulia coltiva i suoi rapporti con quel che resta della grande cultura rinascimentale: Lodovico Ariosto, Matteo Bandello, Annibal Caro contemplano la sua bellezza fisica e apprezzano la sua profondità spirituale.

Ma a metà del Cinquecento les jeux sont faits: le classi dirigenti italiane si rendono conto (già allora) di aver bisogno del papa come fondamentale punto di riferimento, e inclinano anche a sottomettersi all’egemonia di Filippo II di Spagna: è giunta l’ora della Controriforma e dovunque si spande l’ombra della Santa Inquisizione. Negli ultimi capitoli del libro, la parola che torna più spesso è tortura. L’autrice, docente universitaria, è anche presidente della Società di Studi valdesi, e non a caso parla della strage dei valdesi di Calabria (1561) e della lunga sopravvivenza del valdismo nell’Irpinia e nella Puglia. Anche di questo le siamo grati.

1. Alludo a Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi, Histoires des Républiques Italiennes au Moyen Age (Paris, 1809-18).
Foto “Cerchia S. del Piombo Giulia Gonzaga” di Follower of Sebastiano del Piombo[1]. Con licenza Public domain tramite Wikimedia Commons.