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La benedizione nella notte della gloriosa sconfitta

Ogni giorno abbiamo un conflitto da affrontare, anche se vorremmo lasciare la tensione fuori dalla porta del Tempio, per trovare almeno là un po’ di pace. E invece, Dio non ha ancora finito con noi, e la lotta continua anche nel luogo sacro. Era da una vita che Giacobbe lottava, molto prima di quella notte allo Iabboc. Si era scontrato con il fratello gemello, con la madre, con il padre, di nuovo con il fratello gemello, con il suocero, con le mogli… e quella notte si scontrò con uno sconosciuto che aveva attaccato briga, lui questa volta non c’entrava. Pare non si trattasse di un meraviglioso angelo, ma ignoriamo chi fosse il tale fino alla fine del racconto, quando Giacobbe chiamerà il luogo Penuel, volto di Dio. Abbiamo incontrato il volto di Dio sulla croce.

Bisogna tirare fuori la grinta – siamo alle prese con il lavoro, con i membri della famiglia e della chiesa, con i colleghi, i superiori, i dipendenti… dobbiamo affrontare esami, problemi di salute, negoziare, mediare, difenderci, prendere decisioni sofferte. Ci sfugge, però, che anche Dio ce l’ha con noi. Lottiamo anche con Dio, lo sconosciuto, che non ci lascia in pace. Ci lascia lottare, provare, sperare. Non ci verrebbe in mente che Dio sia là, dietro l’angolo, pronto ad attaccare. Scende nell’arena da antagonista per provare la nostra forza, per diventare dentro di noi più forte della potenza con la quale si oppone a noi. Ci aggredisce per rinnovarci, lavarci, restituirci alla vita con un nome nuovo?

Dio sta dietro tutte le paure che dobbiamo ancora affrontare; nella fosca descrizione della misteriosa figura, non conosciamo il nome e non vediamo il volto dell’antagonista, che dapprima confondiamo con i piccoli dei meschini del luogo, con la nostra vita stessa, cui teniamo, e che pure si ritorce contro di noi, o forse con il peso schiacciante del grande fratello, che da sempre ci osserva. Ma se fosse Dio, l’ignoto assalitore del nostro io impaurito, delle nostre attese e devozioni, dei nostri programmi e faticose conquiste, fosse lui a suscitare in noi un sacro timore reverenziale insieme a una disperata voglia di combattere e di vivere? Durante la notte l’aggressore divino sembra riassumere i tratti dei nostri antagonisti diurni. Le due figure si mischiano, si sovrappongono, si confondono, ma così pure gli antagonisti di Giacobbe, tra cui lui stesso. La storia della riunione di due fratelli è inseparabile da questa rivelazione di santità terribile che lascia il più giovane zoppicante. Nessuna riconciliazione è a buon mercato.

Dio ha benedetto Giacobbe, suo popolo, cambiandogli il nome in Israele.

Dio ha benedetto Giacobbe, suo popolo, cambiandogli il nome in Israele. Al ruscello c’eravamo anche noi – soli, denudati, disperatamente impauriti, pronti a tutto. Alla comparsa dell’uomo che lottò con lui tutta la notte, avvertimmo la stretta su di noi di un Dio coinvolto, più nemico che amico, certamente non scontato. Eccolo presente e attivo, mentre nell’oscurità fa risaltare le lacune e i terrori di una vita e prevale sull’aggredito proprio quando non può vincerlo, con il colpo basso all’anca: anche noi avvertimmo la fiacca, ma non ci arrendemmo. Prevalemmo anche noi, ma non si trattava di una vittoria, perché non sapevamo ancora nulla del Nome di Dio, né ci era concesso attraversare il mistero. Forza e capacità di autodifesa non bastano a estorcere allo sconosciuto il suo nome, chiave dell’identità e fonte di controllo. Più avanti in questa lunga storia di lotte, Mosè scoprirà che il Dio dei padri ha un nome che lo svela e lo nasconde: il Signore vuole essere amato e cercato, ma non si lascerà possedere.

Nella nostra gloriosa sconfitta abbiamo ottenuto una benedizione e un nuovo nome, siamo fortunati a essere sopravvissuti. Ma Giacobbe è veramente diventato Israele? Con i nostri incidenti di percorso e soprattutto, quel marchio divino inflittoci quasi per mettere a tacere le nostre pulsioni e le nostre domande, possiamo veramente rivendicare il nuovo nome, siamo davvero creature nuove e vittoriose? Perché all’intrigante Giacobbe e non ad Abramo o Isacco viene consegnato il nome speciale del popolo di Dio? Forse perché il rapporto di Israele con il suo Dio è sempre stato segnato dalla lotta per una benedizione, anche sotto giudizio e a caro prezzo, come per sottrazione? Ce lo ricorda anche il profeta Osea: « […] nel suo vigore, lottò con Dio; lottò con l’Angelo e restò vincitore; egli pianse e lo supplicò». (12, 4-5).

Il popolo di Dio vive la fede come sfida rischiosa. Nessuno va oltre.

Il popolo di Dio vive la fede come sfida rischiosa. Nessuno va oltre. Quando sorge l’alba, avanza zoppicante, ferito all’articolazione del femore, e il suo nome non è più quello tribale di Giacobbe, ma è «Israele», che significa «contende con Dio»: dall’incontro nello scontro e dalla sfida nella fede non usciamo incolumi ma sfigurati e trasfigurati. L’impatto consegna all’aggredito una identità non acquisita ma posta davanti come compito e promessa, e Giacobbe diviene archetipo di Israele.

Mentre sorgeva il sole sul patriarca, egli si rese conto che il volto più temibile non era quello del fratello Esaù, ma quello di Dio, e anche noi ci stupimmo che il peggio che ci poteva capitare fosse passato, perché lottando contro il Terrore di Isacco (Gn 31, 53) non avevamo altro da temere; attraversammo il fiume trascinandoci impotenti la gamba dolente come trofeo, fieri del nuovo nome di battesimo. Dio si lascia vincere sulla croce per poterci benedire, si fa debole, ma non ce la dà per vinta, anzi si fa carico delle nostre domande e della nostra lotta assumendole nella vita del suo Primogenito, Israele (Mt 2, 15): il Figlio vive in sé la suprema lotta che Dio combatte per instaurare la benedizione.

Il testo lega la comprensione di noi stessi così come siamo veramente al nostro riconoscimento di Dio così come è veramente; Giacobbe assediato non vede riflessa negli occhi dell’aggressore solo la sua ambiguità, ma anche Peniel, il volto di Dio. La tradizione biblica racconta di questo movimento, dalla consapevolezza della bontà misteriosa e sovrana di Dio alla presa di coscienza costruttiva della nostra peccaminosità. La grazia severa di Dio è più importante della nostra sgraziata doppiezza. Qui, però, accade qualcosa di nuovo: al guado del torrente Iabboc il villano-vittima-eroe non impara di sé quanto già sa, ma scopre che Dio sa chi è, lo conosce a fondo e lo accetta. Ora sappiamo che Dio non ci colpisce per i nostri inganni, furberie, menzogne, ma ci tende le imboscate per dare alla nostra vita nuove svolte e opportunità; non ritira le promesse fatte sin dall’inizio del cammino, anche se ci lascia alle prese con i nostri Esaù interni ed esterni, con i quali dobbiamo fare la pace. Egli crea le premesse perché ci sia la riunione e la riconciliazione di offesi e offensori. Il miracolo dello Iabboc è l’Evangelo, la buona notizia che Dio ci assume così come siamo, e dopo aver nominato il nostro nuovo nome, ci preserva per trasformarci. Tu sei Israele, questa è la tua storia, che inizia con il padre Abramo e ti accompagna fino al fratello primogenito Gesù, con i fratelli e le sorelle di ogni età, sia fedeli sia infedeli.

(Prima di una serie di quattro meditazioni)