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50 anni con la televisione

A cinquant’anni dall’avvio delle trasmissioni di Protestantesimo ricordo non la prima, ma una delle prime puntate, che ruotava intorno a un culto nella chiesa metodista di Savona. La trasmissione durava 15’, per un totale di mezzora sommandosi a Sorgente di vita. Da undicenne preso dai compiti della II media, ero incuriosito dall’accostamento fra la trasmissione “nostra” e quella delle Comunità ebraiche (allora, e fino al 1987, la denominazione era Unione delle Comunità israelitiche), ma soprattutto ero colpito dal fatto che un culto, un “nostro” culto, finisse in televisione. La vulgata, allora, era: “se l’ha detto la televisione…”, e nei pensieri di un ragazzino si faceva strada l’idea sconvolgente, che una pratica molto “nostra” potesse avere corso su uno strumento che raggiungeva tutti i nostri connazionali (all’epoca, si ragionava solo al maschile).

L’universo per un ragazzino di allora – oggi magari è un po’ troppo pulviscolare – comprendeva la scuola e poi la Scuola domenicale, con trasferimento, a volte, nel tempio per la parte finale del culto. Il culto era una pratica familiare, di cui essere convinti, perché la famiglia e i monitori ce ne spiegavano l’importanza. Ma riguardava noi. Non potevo capire, allora, l’importanza che potesse avere la trasmissione di un culto su una rete nazionale. Dopo i diritti del 1848 e l’evangelizzazione in epoca risorgimentale, le chiese evangeliche potevano uscire allo scoperto per un altro pezzetto, e raccontare la loro fede agli italiani e italiane. E avere un “ritaglio” di tempo televisivo nella Rai, a cui spettava l’esclusiva dell’etere, era un bel riconoscimento.

Questa opportunità ha visto allargarsi, anno dopo anno, l’orizzonte dell’immagine che le chiese evangeliche potevano dare di sé all’Italia: non solo il culto, ma i centri giovanili, l’azione sociale e – importantissimo – il forte legame con l’internazionale protestante: le chiese valdesi con la loro storia plurisecolare, lungo la quale sono state sostenute da chiese sorelle; le battiste e metodiste facendo capo a organismi europei e mondiali di riferimento, come pure l’Esercito della Salvezza e la Chiesa luterana in Italia. Orizzonti vasti, che si traducono nel coinvolgimento in grandi eventi: pochi accadimenti, nel mondo, potevano dirsi “estranei” alle chiese italiane, o quanto meno alle chiese con cui le nostre erano e sono gemellate. Molte puntate della trasmissione ne hanno dato conto mettendo in risalto le specificità di uomini e donne protestanti in accadimenti dalla portata epocale.

Non basta: Protestantesimo, come anche il Culto radio, ha seguito e anche promosso occasioni di incontro nell’ambito della formazione e dello scambio di esperienze con responsabili di trasmissioni omologhe: ne abbiamo il segnale visibile nei culti in Eurovisione, ma anche negli organismi dedicati alla comunicazione in ambito cristiano, come la Wacc (World Association for Christian Communication). Luoghi dove registi e produttori possono approfondire il mestiere, luoghi dove si incrociano gli sguardi delle varie chiese nazionali sparse per l’Europa e il mondo, in una comunione di fede e d’intenti ricca di risultati. Anche lo scambio di trasmissioni, così come la traduzione di un articolo da periodici simili al nostro, è stato nel tempo utile ad “allargare le nostre tende”.

Nel corso di questi 50 anni è cambiata la veste della trasmissione, che ha via via modificato il proprio linguaggio, sfruttando le possibilità dell’elettronica e nuove forme dell’allestimento dello studio; nel frattempo ovviamente è cambiata molto anche la società; è cambiato in maniera irreversibile il panorama della diffusione e del seguito delle fedi religiose, si è fatta più pressante l’esigenza di parlare in modo diverso a una cultura contemporanea che, per dirla senza giri di parole, sembra non voler avere niente a che fare con Dio. Sembra che per questa società e cultura la vita di fede sia appannaggio dei soli aderenti, persone strane appartenenti non a maggioranze o minoranze, ma a una specie in via d’estinzione. Eppure le ricadute sociali di ciò che le chiese fanno sono percepite e apprezzate da tutti: se ne ha notizia, specialmente quando queste ricadute sociali rappresentano un aiuto e forme di solidarietà indispensabili per tirare avanti – dai richiedenti asilo ai senza casa, dalle donne in sofferenza nel mondo ai doposcuola.

Una trasmissione come Protestantesimo, che resiste come resistono le chiese a cui fa capo, può avere un ruolo di presidio nel mantenere viva la necessità di una televisione generalista, nel suo senso migliore: innanzitutto in quanto trasmissione del servizio pubblico, destinate a chiunque, per far capire a chiunque a complessità della nostra società, e l’arricchimento reciproco che viene dalla conoscenza. Oggi si tende a liquidare come superata questa televisione, a tutto vantaggio degli orientamenti più individualisti – a pagamento o meno – che, pur proponendo materiali assai interessanti, assecondano lo sguardo privato di ognuno e ognuna nel proprio autoisolamento. Siamo lontani dall’epoca in cui la tv aveva la funzione di promuovere la crescita collettiva.

Ma per fare ciò Protestantesimo, come anche la stampa evangelica, ha bisogno di un altro elemento essenziale: la vita e vivacità delle chiese nel raccontare non solo ciò che fanno ma anche le motivazioni che le portano a farlo. Che cosa, insomma, muove fratelli e sorelle a farsi testimoni dell’Evangelo. Il racconto delle loro vite può e deve essere una confessione di fede (ne abbiamo avuto prova in molte puntate), come lo sono i racconti di chi ha condiviso pezzi di vita con Bonhoeffer, con M. L. King. Da questo punto di vista la domanda ricorrente se la trasmissione – come i nostri periodici – debbano rivolgersi a un pubblico interno o esterno, può essere superabile. La forza dei racconti della fede vissuta interroga i nostri vicini di casa e al tempo stesso può edificare chi già è attivo nelle nostre chiese. Il baricentro si è solo spostato un po’: i nostri concittadini e concittadine del 1973 si saranno chiesti chi fossero questi “cristiani diversi”; oggi si chiedono come queste chiese fanno a resistere. Ora – non domani – siamo chiamati a rispondere e a spiegarlo, perché ora la frontiera, più che fra cristianesimi diversi, si colloca fra il cristianesimo e l’indifferenza. Andare nel mondo, senza essere del mondo, significa anche fare questo tentativo.