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Jan Palach, in una mano la Bibbia e nell’altra Il Capitale

Il 16 gennaio del 1969, nel centro di Praga, in Piazza San Venceslao, lo studente cecoslovacco Jan Palach si dà fuoco come gesto estremo di protesta contro l’occupazione del suo paese da parte delle truppe sovietiche che hanno stroncato la Primavera di Praga, la rivoluzione democratica reclamata dal popolo cecoslovacco. Palach, 21 anni non ancora compiuti, muore due giorni dopo per le ustioni riportate. L’opinione pubblica è sgomenta, mentre il governo tenta una campagna diffamatoria verso lo studente per sminuirne il suicidio. Dopo di lui altri sette studenti si suicideranno nel silenzio degli organi di informazione.

«Una figura limpida e pura quella di Jan Palach (giovane protestante cresciuto leggendo la Bibbia che amava definirsi socialista luterano) che il 16 gennaio 1969 si dà fuoco in piazza Venceslao per diventare luce al suo popolo. È un giovane che non sopporta il sopruso. Né l’autoritarismo e la sopraffazione. A sentire la testimonianza del fratello Jiří, resa a Enzo Biagi in un’intervista televisiva, “a sedici anni, forse meno, mi ha detto che studiava la Bibbia e che l’aveva già letta quasi tutta”», così scriveva il 16 gennaio del 2019 (anniversario della morte di Palach) su il manifesto il professor Francesco Leoncini.

«Effettivamente – prosegue Leoncini – lui amava definirsi «comunista e luterano» e nel suo primo anno di studio alla facoltà di Filosofia aveva presentato una tesina «sull’umanesimo nel giovane Marx». La sua vita si era dispiegata a partire da quell’humus della terra boema: dove Jan Hus, messo al rogo dal Concilio di Costanza, con la sua predicazione aveva precorso di cent’anni la Riforma protestante; dove Petr Chelcický, esponente hussita delle comunità contadino-plebee, aveva sostenuto il rifiuto di qualsiasi forma di autorità e, nello stesso tempo, la non violenza; dove Jan Amos Komenský (Comenio) aveva maturato l’idea di una umanità rinnovata attraverso l’educazione che avrebbe dovuto realizzarsi senza differenze sociali, di etnia e di genere.

Con ragione Alexander Dubcek, nel suo discorso all’Università di Bologna, in occasione del conferimento della laurea honoris causa nel novembre 1988, aveva voluto sottolineare: «abbiamo combattuto lungo l’intero corso della nostra storia, meglio sarebbe a dire che abbiamo sofferto a causa dell’umanesimo. Forse non sopravvaluto il carattere delle nostre due nazioni [ceca e slovacca] sostenendo che nel suo profondo, nella sua sostanza sono fissati la serietà, il rispetto per l’uomo e per i grandi valori umani». In precedenza, aveva citato il fondatore dello Stato cecoslovacco, l’intellettuale laico e progressista, Tomáš Garrigue Masaryk allorquando aveva dichiarato: «L’umanesimo è il nostro obiettivo ultimo, nazionale e storico».

“Alexander Dubček e Jan Palach – protagonisti della storia europea” è il titolo del libro di Francesco Leoncini per Rubettino editore.

Alexander Dubcek e Jan Palach non sono espressione di un Paese e di un sistema di governo ormai scomparsi, ma protagonisti di una stagione che pone innumerevoli interrogativi alla coscienza e alla storiografia europee. Quest’opera collettanea, frutto di un impegno di alcuni anni, si presenta come un contributo fortemente innovativo sulla Primavera cecoslovacca, per organicità d’impostazione e per ricchezza di documentazione. Il volume può vantare saggi di carattere filosofico, sociologico e storico-culturale e dà conto non solo degli otto mesi in cui quell’esperimento politico si manifestò e di tutto il dibattito e il travaglio precedenti, ma prende anche in considerazione il periodo immediatamente successivo all’invasione quando si evidenzia il distacco sempre maggiore tra società civile e dirigenza politica. È in questo contesto che matura il rogo di Jan Palach rivolto innanzitutto contro la gestione della crisi da parte di Dubcek, ritenuta rinunciataria e arrendevole alle richieste sovietiche, e diretto a scuotere le coscienze dei propri concittadini. Non manca la valutazione del quadro internazionale di allora e in particolare delle posizioni del Partito comunista italiano. Una serie di interviste offre un panorama di autorevoli opinioni riguardo agli eventi del ’68 e agli sviluppi successivi fino alla caduta del muro di Berlino.

La canzone

Jan Palach compare nella canzone Primavera di Praga di Francesco Guccini, contenuta nell’album Due anni dopo, registrato nell’autunno del 1969 ed uscito nel 1970;

«Di antichi fasti la piazza vestita, grigia guardava la nuova sua vita. Come ogni giorno la notte arrivava, frasi consuete sui muri di Praga. Ma poi la piazza fermò la sua vita e breve ebbe un grido la folla smarrita quando la fiamma violenta ed atroce, spezzò gridando ogni suono di voce».

Il cantautore emiliano proseguiva così, citando Jan Hus: «Quando ciascuno ebbe tinta la mano, Quando quel fumo si sparse lontano,
Jan Hus di nuovo sul rogo bruciava All’orizzonte del cielo di Praga…».

La condanna dei soprusi compiuti dai sovietici ai danni della libertà del popolo ceco è il tema dominante della canzone di Guccini. L’autore ricorda wikipedia in particolare si concentrò sul suicidio-protesta dello studente di filosofia Jan Palach, che si svolse in Piazza San Venceslao, nel cuore antico della città di Praga. In ospedale Palach aveva dichiarato che aveva emulato il gesto, compiuto nel 1963, dal monaco buddhista Thich Quang Dùc, per protestare contro la repressione della propria religione da parte del cattolico Ngô Đình Diệm, allora presidente del Vietnam del Sud.