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La chiesa come corpo di pace

L’articolo di Paolo Naso sul conflitto russo-ucraino m’è parso molto buono sia sul versante critico (la divisione oggi evidente nell’opinione pubblica e fra i cristiani su come concepire ed eventualmente conseguire la pace nella guerra in corso) sia nella sua proposto costruttiva (riconoscere da un lato senza mezzi termini la sovranità dell’Ucraina sul suo territorio, e dall’altro tutelare meglio la popolazione russofona del Donbass). È un discorso – mi sembra – equilibrato ed equo, senz’altro da apprezzare e condividere. È un contributo che si colloca nel migliore filone diplomatico della risoluzione dei conflitti.

La diplomazia, lo sappiamo, è un’arte nobilissima fondata sul dialogo. Non c’è conflitto umano di qualunque genere, dimensioni e intensità che non possa essere risolto per via diplomatica, accettando di passare dallo scontro (tanto più se armato) al dialogo, in vista di un accordo accettabile per tutti i contendenti, diretti e indiretti. Tutti i conflitti, quindi, prima o poi, si risolvono per via diplomatica Quindi ogni proposta e ogni sforzo in questa direzione è senz’altro da perseguire e merita ogni appoggio.

La domanda che vorrei porre e proporre è un’altra: il ruolo della Chiesa in mezzo ai conflitti si colloca unicamente nell’ambito della diplomazia? La Chiesa non ha altro da offrire, oltre alle sue preghiere, che una attività diplomatica a più livelli, attingendo anche alla sua millenaria esperienza e proverbiale saggezza? Il corpo della Chiesa può ridursi a essere un corpo diplomatico? La Chiesa non è forse corpo di Cristo? E che cosa può essere in terra il corpo di Cristo, Principe della pace, se non un corpo di pace? Ma dov’è, oggi, questo corpo di pace? Non cercatelo, perché non c’è. E non c’è perché la Chiesa non osa e forse neppure vuole diventarlo. E non osa diventarlo perché, paradossalmente, ha paura della pace, non che sia fatta (la invoca a gran voce anche lei, come tutti gli altri), ma che sia fatta sul suo corpo, cioè che lei, come corpo di Cristo, diventi corpo di pace.

Come si diventa corpo di pace? In un modo solo: adottando la nonviolenza come stile e prassi di vita, insegnando capillarmente ai suoi membri la teoria della nonviolenza, le sue radici spirituali e ragioni morali, e addestrandoli alla prassi e tecniche di questa cultura ancora praticamente sconosciuta. L’articolo di Paolo Naso termina con una bella citazione di Martn Luther King. Ma quand’è che la Chiesa non si limiterà a citarlo e comincerà a imitarlo? In nessuno degli innumerevoli discorsi cristiani sull’attuale tragico conflitto russo-ucraino che io abbia letto o udito dall’inizio della guerra fino a oggi, (ripeto: in nessuno!) ho sentito anche solo pronunciare la parola nonviolenza. Sembra una parola proibita. Forse è un silenzio dettato dal pudore, da un senso confuso di vergogna o da cattiva coscienza: quella di una Chiesa che è, sì, voce di pace (tranne che in Russia e in Ucraina, dove – tragicamente – non è neppure questo!), ma non è quello che dovrebbe essere, cioè corpo di pace.

C’è un esempio perfetto di quello che può significare essere corpo di pace, oltre a quello offerto dal comportamento del Movimento di Martin Luther King, molto ammirato e citato dalle Chiese, ma per niente imitato. È un esempio che viene da lontano e che tutti abbiamo impresso indelebilmente nella memoria: l’esempio di quell’uomo in maniche di camicia che a Pechino, in piazza Tienanmen, si pose, completamente disarmato, con il suo corpo, davanti a una fila di quattro enormi carri armati e, rischiando ovviamente la vita, obbligò quegli orrendi strumenti di morte a fermarsi e, in questo senso – miracolo! – li disarmò. È questo che dovrebbe essere oggi, nel mondo attuale armato fino ai denti, con armi sempre più perfezionate e distruttive, la Chiesa cristiana. L’uomo di Tienanmen è il suo modello, l’icona vivente di un “corpo di pace”. Se la Chiesa ha paura di diventarlo finalmente (in tutta la sua storia non lo è mai stata), vano è il suo invocare la pace e anche il suo pregare. Temo che Dio non l’ascolti neppure.