randy

Per i migranti verso gli Usa cambiano le parole, ma non le politiche

Uno degli elementi fondanti della presidenza Donald Trump negli Stati Uniti era il controllo, o più che altro il blocco, dei migranti in arrivo dal Messico. Era stato l’elemento principale della sua campagna elettorale e, una volta vinte le elezioni, aveva portato avanti diverse politiche per sigillare il confine. Il fulcro, simbolico ma anche pratico, era la costruzione dell’ormai famigerato muro, che avrebbe dovuto coprire l’intero confine tra i due paesi.

Da un anno e mezzo alla presidenza c’è il democratico Joe Biden, che ha insistito molto meno sulla questione migratoria. Di recente, però, siamo stati colpiti da alcune notizie tragiche legate al passaggio illegale del confine. Per provare a raccontare l’attualità della questione, nella trasmissione Cominciamo Bene di RBE abbiamo intervistatoRandy Mayer, pastore della Ucc in Arizona e da tempo impegnato, assieme alla congregazione, nell’aiuto umanitario verso i migranti.

Randy Mayer, può raccontarci della sua congregazione e di com’è coinvolta nell’aiuto ai migranti?

«Quella del Good Sheperd è una congregazione della United Church of Christ, che si trova a circa 56 chilometri dal confine tra Stati Uniti e Messico. È stata fondata attorno al 1990 e io sono arrivato nel 1998, perciò sono circa 25 anni che la frequento. La congregazione cominciò ad essere seriamente coinvolta nella questione immmigrazione quando molti migranti cominciarono a passare da qui; siamo sul percorso di chi attraversa il confine a Nogales e poi risale la valle. I migranti avevano cominciato a bussare alle porte delle case. Noi uscivamo e davamo loro cibo e acqua, e abbiamo cominciato a pensare: perché queste persone attraversano il confine? Perché stanno arrivando nella nostra comunità? Perciò siamo diventati consapevoli della situazione e lanciato l’iniziativa dei Samaritans, con la quale distribuiamo acqua e raggiungiamo in auto il deserto per offrire aiuto umanitario. Adesso andiamo spesso in Messico e lavoriamo con i migranti che vengono deportati. Diamo anche una mano in una grande struttura che ospita migranti che aspettano di attraversare il confine per chiedere asilo».

L’idea di questa intervista arriva da alcune recenti tragedie, come il camion dentro al quale sono stati trovati, morti asfissiati, almeno 50 migranti vicino a San Antonio, in Texas. Si erano nascosti lì dentro per passare il confine. Si tratta di un caso isolato?

«Sai, penso che si debba andare un po’ indietro per provare a capire cosa sia successo, perché queste morti sono sempre state una parte del piano, non importa se in un camion o se nel deserto, individualmente. Possiamo andare indietro al 1994, quando il presidente Clinton firmò il Nafta, l’Accordo nordamericano per il libero scambio. Il Nafta e la svalutazione del peso messicano nel 1994 hanno creato questo imbuto di persone. Sapevamo che ci sarebbe stata questa immensa quantità di migranti che avrebbero attraversato il confine, e quindi abbiamo fatto una serie di cose. Gli Stati Uniti hanno costruito muri nelle aree di confine più frequentate. C’era un piano, ed è stato anche dichiarato apertamente. Doris Meissner, l’allora commissaria dell’INS, il Servizio di Immigrazione e Naturalizzazione, disse: “saremo in grado di spingerli nel deserto, dove o moriranno, o verranno scoperti da noi”. Perciò la politica degli Stati Uniti è stata: rendiamo loro le cose difficili, così non arriveranno. Dal 1994 abbiamo avuto molti programmi di deterrenza, come la costruzione di muri o l’operazione Streamline, con l’idea di mettere in difficoltà alcuni migranti, in modo che tornassero indietro e dicessero: “non provateci, è troppo difficile: il deserto è difficile, essere chiusi in detenzione per 60 giorni è difficile”. C’è anche un programma per cui se, ad esempio, attraversi il confine a Nogales, per allontanarti dal tuo cartello e dalle persone che attraversano con te ti deportano a 250-300 chilometri di distanza, in un’altra città.
In questo momento, abbiamo principalmente due programmi di deterrenza. Una è la cosiddetta politica del Title 42, una sorta di oscura legge sanitaria che permette agli Stati Uniti di fermare le persone al confine; in questo modo, per via del Covid, Trump ha potuto bloccare completamente l’immigrazione. E il presidente Biden non l’ha rimossa. Assieme al Title 42 abbiamo anche un altro programma: il Remain in Mexico (Rimani in Messico) o Politiche di protezione dei migranti, che dicono: se qualcuno vuole fare domanda di asilo, può presentarla, ma deve preparare tutta la documentazione in Messico e non può arrivare negli Stati Uniti per difendere la propria richiesta. Questi programmi di deterrenza hanno creato una sorta di pentola a pressione, con molti migranti che raggiungono il confine e non possono attraversare né legalmente né illegalmente; si è creata una situazione orribile, davvero orribile. Perché la situazione in Messico, con i cartelli della droga e le gang, è davvero pericolosa, perciò i migranti sono disperati e cercano di attraversare il confine in modi rischiosi. E il camion a San Antonio è stato un esempio, ma in questo periodo vediamo molte persone che attraversano il deserto, più di quanti ne vedevamo da molto tempo. Troviamo persone tutti i giorni».

Quindi mi sembra di capire che la politica non sia cambiata, dopo l’elezione di Biden

«L’unica cosa che Biden ha cambiato riguarda il muro che Trump stava costruendo in zone dove nessuno pensava si potesse costruire: aree montane e impervie, con diversi canyon. Trump ci stava provando lo stesso, ma Biden ha interrotto la costruzione. Questa è l’unica cosa. E tra l’altro la Homeland Security, il dipartimento dedicato alla sicurezza statunitense, ha appena annunciato che l’intenzione è quella di proseguire il muro in alcuni luoghi dove si pensa che possa essere utile. Come dicevo, poi, Title 42 è ancora in funzione, Biden non l’ha rimossa. Per quanto riguarda il Remain in Mexico: Biden l’ha portato a giudizio e la Corte Suprema alcune settimane fa ha stabilito che può essere rimosso. Ma Biden non l’ha rimosso. Perciò questi programmi restano. In sostanza, il linguaggio di Biden è molto più morbido, non ha cattiveria e l’odio dei discorsi di Trump, ma la politica è esattamente la stessa. Non ha cambiato nulla».

In questo periodo state notando numeri in crescita? E da dove arrivano i migranti, principalmente?

«Sì, i numeri stanno salendo, anche per quanto riguarda le persone che attraversano il deserto. Adesso sono in pochissimi, per via di Title 42, a poter fare domanda di asilo. Nogales è uno dei pochi posti in cui siamo riusciti a far attraversare persone tramite casi di asilo  umanitario.
Non conosco i numeri nel dettaglio, ma sono senz’altro tra i più alti che abbiamo mai visto, ed è perché per due anni le persone sono state sostanzialmente obbligate ad aspettare, ma adesso non possono più aspettare. Le loro vite sono in pericolo in Messico, perciò devono decidere: moriremo mentre attendiamo qui, oppure proviamo a sopravvivere attraversando il confine?
Per quanto riguarda i paesi di origine, la maggior parte arriva sempre dallo stato Guerrero del Messico, direi all’incirca il 60% delle persone. Da El Salvador invece arrivano meno persone del solito. Arrivano molti Nicaraguensi e persone dal Venezuela. Se si guarda con attenzione, si nota che spesso si parte dai paesi che hanno problemi politici (come il Guatemala e l’Honduras, che non hanno governi stabili che possano occuparsi della popolazione). El Salvador ha un presidente apprezzato dall’80% della popolazione e sta provando a portare avanti dei cambiamenti, perciò meno Salvadoregni cercano di passare il confine. Mentre invece con paesi come Venezuela, Cuba o Nicaragua gli Stati Uniti non hanno nemmeno rapporti diplomatici: sono tra i paesi da cui arrivano più persone ora. Arrivano anche persone da Haiti. Ma non stiamo vedendo nessun ucraino, almeno non a Nogales».

Se lei potesse dettare la politica migratoria negli Stati Uniti, cosa cambierebbe?

«Ciò che mi tormenta di più è che per 29 anni o più gli Stati Uniti sono stati concentrati su una politica di messa in sicurezza militare del confine. Non è passata nessuna legge in Congresso, a Washington, riguardo alla regolazione del lavoro migrante. Non è passata nessuna legge a Washington che provasse a rendere più facile il processo di asilo. Perciò in sostanza per 29 anni i nostri politici, democratici o repubblicani, hanno chiesto di inviare soldi per avere più agenti, più muri, più tecnologia, più droni, più sorveglianza…questa è la loro strategia. Non ce n’è nessun’altra. Non si parla di altro perché l’idea è questa: dobbiamo in primo luogo rendere sicuro il confine, prima di pensare a tutto il resto. Così per 29 anni non c’è stata nessuna creatività, è stato come un disco rotto. Per chi vive qui, vicino al confine, le nostre comunità sono ormai militarizzate. Vivi con gli effetti di una militarizzazione attiva che pattuglia le strade e la comunità. Nell’area di Nogales adesso abbiamo un dirigibile che controlla la zona dall’alto con telecamere puntate sulla città. Possono guardare ovunque, nel cortile di chiunque, nel supermercato, nei parcheggi: non importa dove sei, c’è una telecamera puntata su di te. E stanno pianificando di lanciare 17 dirigibili su tutto il confine. La domanda è: dove si fermeranno? Ci sarà uno di questi dirigibili su ogni comunità americana, tra non molto. Perciò questa è la mia idea: eliminerei questa politica del mettere in sicurezza il confine. Invece, concentriamoci su politiche del lavoro. La maggior parte delle persone vuole soltanto entrare e lavorare, per poi tornare, quando potranno, nei loro paesi, se saranno diventati sicuri. Perché non pensiamo a queste politiche, invece di costruire i muri? Anche perché i muri non hanno fermato nessuno. Non si sono visti grandi cambiamenti, con la costruzione di muri.
Io penso che i nostri politici abbiano creato questa sorta di incendio nel deserto, e poi mandano gli agenti di confine a salvare tutti. Ma siete stati voi a creare questo problema, e in ogni caso gli agenti non sono le persone giuste per salvarci. Sono quelli che, assieme alla politica, hanno fatto partire l’incendio e scatenato il problema. Allora, eliminiamo il problema, eliminiamo la questione della sicurezza, che sta spingendo le persone nel deserto. Saremmo un luogo completamente diverso».

 

Ascolta “I muri non servono – Intervista al pastore statunitense Randy Mayer” su Spreaker.

 

Foto: Randy Mayer con Marta Bernardini, coordinatrice di Mediterranean Hope