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Accogliere il prossimo nella sua interezza

Venezia, Rovigo, Marsala, Trapani, Pinerolo, Napoli, Milano, Gravina in Puglia, Altamura, Lucca, Gelsenkirchen, Palermo. Un intreccio di luoghi – quelli delle nostre origini – e di sedi, quelle dove attualmente siamo in servizio – presso le nostre chiese battiste, metodiste, valdesi; diversi e diverse per età (spaziando dai 30 ai 55 anni!), per cultura, formazione, esperienze, fasi del ministero; chi pastore, chi pastora, chi diacona. Siamo noi quattro, non solo tirocinanti della Pastorale clinica, ma anche piccola comunità che ha condiviso questa lunga formazione presso l’Ospedale evangelico internazionale di Genova Voltri dal 5 giugno al 2 luglio. Un’esperienza totalmente coinvolgente, non solo per gli aspetti formativi – didattici ed esperienziali – ma pure per la vita ordinaria.

Abbiamo condiviso ogni spazio della quotidianità: dai brevi culti mattutini che scandivano l’inizio delle nostre giornate, alle riflessioni a tutto campo, ai pasti, alle risate, alle preoccupazioni, ai propri vissuti, alla stanchezza; capaci nel contempo, forse perché adulti, di ritagliarci spazi personali, per continuare ad alimentare i nostri legami affettivi – lontani da Genova – familiari e non solo. Le nostre personali biografie ci hanno permesso di affrontare l’intensa e faticosa esperienza ospedaliera ciascuno e ciascuna scoprendo nuove prospettive: per esempio, chi non era mai stato in ospedale se non da paziente, ha potuto conoscere quel contesto nella sua interezza, nelle sue dinamiche organizzative e strutturali. 

Una cosa è certa: tutti e tutte noi abbiamo indossato un abito nuovo, inedito, quello del cappellano, della cappellana, mettendoci realmente addosso un indumento – il camice – che ci ha reso parte integrante dello staff ospedaliero. Un abito che all’inizio abbiamo sentito estraneo, che abbiamo portato anche un po’ a disagio: non è stato immediato familiarizzare con un ruolo mai sperimentato prima! In ospedale nessuno ti cerca: sei tu che entri nei reparti, nelle stanze, incroci gli sguardi, ti avvicini a un letto, ti presenti, cerchi di spiegare chi sei e che cosa fai: nella maggior parte dei casi a persone totalmente estranee alla nostra Chiesa, persone di altre chiese, di altre fedi, di nessuna fede, ma persone che inspiegabilmente si aprono a te, rendendoti partecipe talvolta dei lati più intimi della loro vita, raccontandoti l’inconfessabile, in un rapporto di fiducia davvero straordinario e inaspettato. Quasi come se, a fronte di un contesto ospedaliero e assistenziale inevitabilmente standardizzato, ci fosse invece un forte e inespresso bisogno di umanizzazione delle cure, di personalizzazione nell’accompagnamento spirituale della persona malata.

Nei vari reparti a noi assegnati – Medicina, Chirurgia, Ostetricia, Ginecologia, Ortopedia, più una mattinata in Pronto Soccorso – abbiamo imparato ad accogliere la sofferenza, la rabbia, il dolore, la negazione, la rassegnazione, la solitudine, la morte imminente: abbiamo sperimentato la potenza del silenzio, del pianto, di un gesto privo di parole, di uno sguardo silenzioso. Abbiamo capito l’importanza di “stare” con la sofferenza esplicitamente espressa o con la paura taciuta o con la rabbia negata: abbiamo sperimentato la capacità delle persone al nascondimento delle loro emozioni, abbiamo cercato di farle esprimere, quelle emozioni: di nominarle, accompagnando e accogliendo, sospendendo ogni giudizio e ogni facile, frettoloso e, spesso non richiesto, consiglio. L’empatia esercitata nelle stanze dell’ospedale ha potuto esprimersi attraverso un faticoso lavoro condotto anche su noi stessi e noi stesse, sul riconoscimento e sulla consapevolezza delle nostre emozioni, dei nostri disagi, delle nostre difficoltà: il gruppo – affiatato, solidale, fraterno, pur nella sua eterogeneità – è stato il contesto favorevole che ha permesso che tutto ciò accadesse, non solo nei momenti formali e guidati, ma pure nella spontaneità di tanti spazi informali e altrettanto arricchenti. 

Esserci nella nostra interezza, con il cervello e con le viscere: né facile né scontato. Come la vita eterna, piena, in abbondanza che Gesù ha promesso: né facile né scontata, né priva di sofferenza, né priva di dolore, ma benedetta e piena di senso e, soprattutto, accompagnata dalla presenza del suo Spirito. In queste quattro settimane non abbiamo salvato nessuna vita, non abbiamo guarito nessuno: abbiamo semplicemente condiviso, accompagnato, ascoltato, restituito; nella costante ri-scoperta della preziosità delle “piccole cose”. Di tutto questo siamo profondamente grati e grate al Signore!